Ma per favore
A volte benedico il fatto che il mio incarico al Commercio Estero mi tenga fisicamente lontano dal dibattito politico interno, che mi sembra sempre più allineato su oggetti e linguaggi della politique politicienne, o avvitato – come si dice oggi – su dinamiche autoreferenziali.
Per capire il tipo di vertigine che mi prende, ieri l’ISTAT ha detto che nel mese di maggio abbiamo fatto +14% sulle esportazioni fuori dall’UE (tipo 7 miliardi di vendite in più per le nostre imprese sui mercati più dinamici del Pianeta: +38% col Mercosur, +35% con la Cina, +26% con la Russia, +16% con gli USA eccetera) e stamattina mi sono trovato a dover leggere sulle prime pagine del Tweet di Franceschini e della tenda di Prodi come se il pianeta girasse intorno a quella roba là.
Così, mentre il mondo corre, il dibattito qui in Italia si attorciglia – incuranti noi del prezzo che paghiamo in termini di credibilità internazionale, di attrattività, di affidabilità, e quindi in termini economici – su questioni assolutamente irrilevanti, immaginarie, fatte di pura cartapesta tipo quelle sulle coalizioni future e sulla leadership delle medesime.
Come si sa, infatti, lo Statuto del Partito Democratico prevede che la figura del candidato premier e quella del segretario nazionale coincidano. Così fu nel 2008 con Veltroni, che quello Statuto e quella regola aveva voluto, e anche nelle politiche 2013 con Bersani, che aveva peraltro accettato di sottoporsi alle “primarie di coalizione” l’anno precedente. Nell’ultimo congresso (chiuso il 30 aprile, non cento anni fa) Andrea Orlando e Michele Emiliano hanno proposto di cambiare questa regola, modifica che comunque avrebbe dovuto essere resa poi effettiva applicando tutta la procedura specificamente dettata per le modifiche statutarie. Gli iscritti e gli elettori Pd, comunque, hanno in ogni caso scelto in grande maggioranza la mozione Renzi-Martina che proponeva il mantenimento di questa regola. Dal punto di vista del merito, della procedura e del buonsenso la questione si è dunque chiusa. Amen.
Stanti così le cose, se il Partito Democratico e la sua lista, eventualmente arricchita e partecipata da altre soggettività politiche o da singole autorevoli personalità, otterrà il 40% ed il relativo premio di maggioranza alla Camera dei Deputati, Matteo Renzi sarà il candidato più accreditato per la nomina a presidente del Consiglio da parte del Capo dello Stato. Se così non dovesse essere, lo scenario parlamentare sarà composto su base proporzionale, e quindi le alleanze e gli organigrammi saranno decisi dai partiti sulla base delle loro maggiori o minori affinità programmatiche e dei rapporti di forza in Parlamento. Il Capo dello Stato ne prenderà atto e adotterà i provvedimenti conseguenti.
Questo secondo scenario può non piacere e a me, lo confesso, non piace particolarmente; speravo in un assetto istituzionale diverso, più stabile e più direttamente connesso con il risultato elettorale, ma questo è il pratico risultato della bocciatura della riforma costituzionale da parte dei cittadini e della revisione dell’Italicum effettuata dalla Consulta. Decisioni che possono anch’esse essere valutate secondo l’opinione di ognuno, ma vanno rispettate da tutti.
Naturalmente questa contesa immaginaria è parte della vasta guerra ad personam scatenata contro Matteo Renzi, alla quale, a giudicare dagli articoli letti sulle cronache giudiziarie, avrebbero partecipato non solo un bel pezzo del ceto politico, della stampa e degli intellettuali nostrani ma potenzialmente anche appartenenti a pezzi dello Stato il cui dovere sarebbe quello di proteggere l’ordinamento costituzionale.
Il fatto è che ci si rifiuta di capire che Renzi è un leader politico. Sarebbe a dire che egli non è un Sommo sacerdote a cui si presta fede e devozione, e nemmeno il vecchio capo indiano che ha il compito di mediare tra le i diversi capotribù riuniti davanti al fuoco di qualche caminetto riesumato: Renzi è semplicemente l’inteprete di un progetto, di una linea, di una piattaforma politica che si è confrontata con altre piattaforme politiche e ha vinto con distacco.
Discutiamo la piattaforma? Nessun problema, gli organi collegiali sono lì apposta. La miglioriamo e la arricchiamo con la pluralità e la ricchezza di voci che caratterizza il nostro partito? Fantastico. La rinneghiamo, con un’inversione a U a meno di due mesi dal congresso? Ma per favore.