Rubo il titolo a un libro di vignette di Giorgio Forattini (del 2005, e aveva Prodi e Berlusconi in copertina) per esprimere il mio punto di vista sulla questione delle coalizioni e del premio attribuito alle stesse, che ha una sua persistente presenza nel dibattito politico in tema di legge elettorale.
Devo dire che non sono affatto scandalizzato dall’idea che Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani si siano sentiti sul tema, ed abbiano convenuto che sarebbe opportuno inserire una sorta di premialità per quei partiti che decidano di presentarsi all’elettorato con una linea programmatica comune. L’aureo principio per cui le regole del gioco si scrivono in comune con gli avversari vale per tutti. Magari ci si potrebbe risparmiare qualche trombonata moraleggiante quando questo riguarda gli altri.
Non mi stupisce neanche che questa proposta abbia il trasparente intendimento di dare maggiore forza ad un centrodestra che ha per molte ragioni bisogno di marciare diviso ma di poter colpire unito, e nemmeno che per questa via si voglia soprattutto colpire la legittima idea del Movimento Cinque Stelle di non voler fare accordi preventivi (per i successivi si vedrà) con alcun movimento politico.
Fare una legge elettorale sulla misura dei propri interessi è miope, talvolta addirittura controproducente, ma è inevitabile che una certa quantità di tatticismo si infiltri nelle discussioni e nei progetti di tutti. Nemmeno si può gettare l’anatema sulle coalizioni in quanto tali, visto che al Senato, per il gioco delle sentenze della Consulta e del referendum istituzionale, esse sono vive e vegete.
Ciò che mi lascia veramente perplesso, però, è che una forza politica nata per scissione abbia in animo di fare una coalizione con quella da cui si è scissa. Che una forza politica che predica tre volte al giorno prima dei pasti principali la sua alternatività al Partito Democratico immagini di presentarsi agli elettori in alleanza di governo con il Partito Democratico. Sempre che la coalizione non la immaginino con le altre non poche sigle che popolano quell’area politica, la cui forza elettorale stimata sembra inversamente proporzionale al tasso di litigiosità.
Ciò che ci dice il passato, infatti, è che la debolezza delle coalizioni fra liste che corrono ciascuna per conto proprio è data proprio dalla loro evanescenza: la (geniale) doppia coalizione creata da Berlusconi nel 1994 durò meno di un anno. L’Ulivo “con desistenza”, resse cinque anni solo passando dall’una all’altra lacerazione, e sorte identica ebbe la Casa delle Libertà nel 2001. Nell’età del Mattarellum, l’Unione si schiantò dopo due anni, dopo tre il Popolo delle Libertà. Quanto a Italia Bene Comune, non sopravvisse alla prima settimana della legislatura.
Per paradossale che sembri, il governo più coeso e determinato che l’Italia abbia avuto negli ultimi tempi è quello composto da forze che alle elezioni non solo non erano in coalizione, ma al contrario alternative e l’un contro l’altra armate. Basterebbe questa evidenza per comprendere la natura meramente elettoralistica, di marketing, delle coalizioni che vengono auspicate.
Con i pro-Merkel e i “no euro” nello stesso calderone, da una parte, e con la prospettiva che noi ci si allei con chi vuole la revoca del Jobs Act e magari piazzare una bella patrimoniale, verrebbe da pensare che l’invocato premio alle coalizioni sia dunque non uno strumento per assicurare stabilità, ma solo un mezzo per ottenere qualche seggio in parlamento e riavere poi mani libere, senza farsi nessun carico del governo del Paese e infischiandone della promessa fatta inizialmente agli elettori.
Un po’ come se si corteggiasse una persona che ci attrae, offrendosi però di stare con lei solo a condizione che si faccia una plastica facciale, abbandoni il suo lavoro o gli studi che sta seguendo, cambi squadra di calcio e tronchi ogni rapporto con le persone che frequenta oggi. E questa proposta viene per giunta da chi è tutto il contrario di un buon partito.