Fra le molte notizie positive che hanno riguardato negli ultimi giorni la nostra economia, ce n’è una che mi è stata particolarmente gradita. Per la prima volta, nel periodo gennaio-giugno di quest’anno, le nostre esportazioni sul mercato statunitense hanno superato quelle francesi. Il divario non è altissimo: stiamo parlando di 23 miliardi e 700 milioni di dollari contro 23 miliardi. Ma se la paragoniamo ai 13 miliardi e 600 milioni di dollari del 2010 contro i loro 18,6 si può comprendere che nel corso di questi anni siamo cresciuti ad un ritmo più che doppio del loro.
La cosa più importante, naturalmente, non è il derby transalpino, ma il fatto che la presenza italiana sul mercato più ricco del mondo sia andata progressivamente consolidandosi, con un aumento superiore ai tre miliardi di dollari a partire dal 2014. Non è un dato casuale: è l’anno in cui si comincia a puntare con decisione alla valorizzazione del made in Italy, con un piano per l’internazionalizzazione che cambia di segno in termini di dotazione di risorse, di coordinamento e filosofia di approccio, di obiettivi. Anziché parcellizzare gli aiuti e gli incentivi, li abbiamo organizzati secondo strategie decise da una cabina di regia cui partecipano ben quattro Ministeri, oltre alle Regioni e alle associazioni imprenditoriali; anziché distribuirli a pioggia, li abbiamo ripartiti per mercati-bersaglio, il principale dei quali è fin dalle origini quello statunitense.
Questo ci ha permesso, in sette anni, di scalare ben sei posizioni nella classifica dei Paesi esportatori negli Stati Uniti, arrivando alla nona posizione, in un anno nel quale Francia e Germania hanno registrato qualche difficoltà (ma il sorpasso sui cugini lo avremmo fatto anche se avessero mantenuto i livelli 2016). Il traino a questo risultato 2017 viene da meccanica, pelletteria, chimica e farmaceutica, ma non possiamo dimentica i lusinghieri risultati del food&beverage, con il nostro vino che ha conquistato da tempo il primato, e con le nostre eccellenze enogastronomiche che dicono la loro ad onta della perdurante presenza delle imitazioni.
I margini di crescita e miglioramento sono ancora grandi, al netto delle incognite dettate dagli istinti protezionistici di Trump e (soprattutto) dall’apprezzamento dell’euro sul dollaro. Esistono tutte le condizioni per fare ancora meglio. Non dico per superare il gigante cinese o le nazioni che con gli Stati Uniti confinano, ma per competere con Irlanda e Regno Unito, che ci precedono a non grande distanza. La presenza di una vasta ed operosa comunità italiana, circondata da una buona reputazione crescente, l’amore indiscusso per l’Italia da parte di molte personalità insigni ed autorevoli (non ultimo il rimpianto presidente uscente Barack Obama) possono essere fattori preziosi.
La notizia è che l’Italia vuole farcela. E quando vuole farcela davvero, ce la fa. Anche se in trasferta gioca quasi sempre meglio che in casa.