Le urne tedesche restituiscono il quadro di un Paese che non cambierà guida, ma che per la prima volta nel suo dopoguerra fa i conti con i fantasmi dell’instabilità e dell’incertezza. Il populismo sbarca in Germania nella forma inquietante dell’Afd, che entra nel Bundestag agitando il vessillo della xenofobia soprattutto a spese del grande corpo moderato della Cdu. Un segnale che non può e non deve essere sottovalutato, ma nemmeno drammatizzato oltre misura: da noi il Salvini xenofobo e radicale visto a Pontida è accreditato di percentuali simili, e il ventaglio delle nostre forze populiste è ahinoi assai più ampio e temibile.
Appare invece evidente la difficoltà della sinistra moderata. La Spd, già faro del socialismo riformista europeo, incassa il peggior risultato della sua storia, pur avendo puntato su un candidato cancelliere di grande popolarità come Martin Schulz. Secondo un copione già ampiamente sperimentato, i suffragi perduti dai socialdemocratici vanno solo in minima parte alla sinistra della Linke, che forse incrementerà la sua presenza parlamentare di soli due seggi. Anche in Germania si rivela falsa l’idea che l’articolazione della sinistra in più espressioni aiuti a conquistare quote maggiori di elettorato. Numeri alla mano, sembra vero il contrario. L’elettorato appare irritato o respinto da una sinistra che non riesce a parlare con una voce sola.
Ma il dato che mi sembra inequivoco scaturente dalle urne del Bundestag è la persistente umoralità dell’elettorato europeo, che sembra andare nella cabina elettorale con il dito puntato sul grilletto, si tratti della Brexit o del referendum italiano, delle presidenziali francesi o delle politiche tedesche. In modi e con esiti diversissimi, ma accomunati da una certa qual furente insoddisfazione ed ostilità per chi è percepito come classe dirigente e governante.
Questo aspetto sembra prevalere su qualsiasi dato della realtà effettuale: non importa che la Germania scoppi di salute dal punto di vista economico, che il suo avanzo commerciale sia clamorosamente superiore ai parametri di Maastricht, che la disoccupazione sia contenuta in livelli assolutamente fisiologici e che la coesione sociale sia garantita da un welfare molto efficiente. Tanto meno che la sua leadership sia di assoluto prestigio a livello internazionale e che lo scontro politico vi sia contenuto in termini assai civili.
La paura e l’isterismo sembrano prevalere su tutto, a cominciare dalla ragionevolezza. Questo impone certamente alle forze democratiche di affrontare una contrapposizione inedita, che sembra travalicare le antiche sintassi e diadi: non più conservatori contro progressisti o democristiani contro socialdemocratici, ma entrambi in trincea contro i populismi eversivi. Sembra che il futuro immediato d’Europa proponga questo scenario obbligato.
Tuttavia un arroccamento del genere sarebbe una sorta di assedio di Masada, il luogo dell’ultima disperata resistenza ebraica contro l’impero romano, se rimanesse fine a se stesso. Non può bastare evocare la simmetrica paura per l’esile signorina bionda alle cui spalle si staglia l’ombra tenebrosa del nazionalismo tedesco e della svastica, o per la scialba figura che Beppe Grillo propone a premier in una delle provocazioni meno riuscite della sua pluridecennale carriera di umorista.
La politica deve ritrovare sogno e passione, frontiera ideale e futuro. Giusto spiegare agli Europei quale miseria morale e materiale le destre reazionarie rischiano di riportare in Europa. Ma cerchiamo anche di dire e di dir meglio cosa possiamo attenderci, per noi e soprattutto per i nostri figli, se investiamo in comunità, se ritroviamo i fili di un comune destino. La “modalità campagna elettorale” cui ci ha giustamente richiamato Matteo Renzi questa sera ad Imola deve essere fatta e nutrita soprattutto di questo.