5 Marzo 2018

Perché abbiamo perso, cosa facciamo adesso

Appunti, Attività di governo, Attualità, Elezioni politiche 2018, Governo Gentiloni, Governo Renzi, Partito Democratico, Politica italiana, XVIII Legislatura

Noi abbiamo perso, M5S ha vinto, la Lega ha vinto. Gli elettori hanno chiaramente chiesto un governo M5S-Lega, che è l’unico che pare avere una maggioranza per governare. Gli italiani hanno anche bocciato il nostro lavoro al governo e ci hanno mandato con chiarezza all’opposizione, che è il posto dove ora dobbiamo stare.

Questo il telegramma.

Poi ci sono le riflessioni. Per esempio, che la Lega probabilmente non ci starà a fare il junior partner di M5S, perché Salvini non vorrà lasciare Palazzo Chigi a Di Maio. O che M5S in fondo in fondo pensa che sarebbe meglio restare ancora all’opposizione per fare il botto al prossimo giro. O che qualcuno, tipo Michele Emiliano, dall’alto del suo successo in Puglia (zero collegi e sparizione politica del PD, poco sopra il 13%) suggerisca di fare noi la stampella del M5S. O ancora che altri ci suggeriscano di sostenere governi tecnici o del Presidente, o altre formule del genere. Tutte idee che faremo bene a mandare indietro al mittente, tanto quelle di Emiliano che quelle degli altri.

Poi c’è da chiedersi dove abbiamo sbagliato. Non sapete che fatica e che dispiacere essere bocciati dal pubblico dopo aver vinto il premio della critica e con tutti i numeri delle mie deleghe a testimoniare l’eccellente lavoro che con Carlo Calenda abbiamo fatto sull’export e sull’attrazione degli investimenti dall’estero. Lo penso per me, ma penso che la stessa cosa valga per la stragrande maggioranza dei miei colleghi al governo. Eppure l’Italia sembra essersi voluta, non saprei come dirlo altrimenti, in un certo senso liberare di noi.

Abbiamo fatto molti errori, certo. Non aver saputo ascoltare a sufficienza, probabilmente. Una certa arroganza nella comunicazione, quella di chi pensa di fare la cosa giusta per il Paese e dunque va giù come un treno, ma finendo col sembrare incurante del dolore che sta dentro a ogni cambiamento. Aggiungo un’altra cosa importantissima: non aver messo mano al Partito in periferia, soprattutto nel Mezzogiorno, dove nessuno dei nostri elettori ha visto arrivare il nuovo che promettevamo al centro, cosicché spesso i candidati M5S sembravano molto più “freschi” e apprezzabili dei nostri.

Ma anche cose che ci hanno penalizzato e che però rivendico: non aver ceduto alle promesse facili e sbagliate, dal reddito di cittadinanza alla flat tax; aver tenuto un profilo riformista in un epoca di populismi; aver sostenuto l’Europa, i diritti civili, le vite umane nel Mediterraneo. Anche una certa correttezza politica, oggi così disprezzata, ma che secondo me si traduce bene in italiano con “buona educazione”: io una donna la chiamo “Ministra” e non “Ministro”, e se chi vota per la Lega pensa che sia una stupidaggine, beh, me ne farò una ragione.

Abbiamo certamente pagato la maledizione della sinistra, quella delle sue divisioni, e l’umiliazione subita da Massimo D’Alema e dai suoi accoliti non ripaga certo dall’amarezza. Abbiamo pagato una stampa e una televisione tutte messe in direzione ostinata e contraria (io a un certo punto, esasperato, dopo decenni di reciproci e amorosi sensi ho addirittura disdetto l’abbonamento a Repubblica). Abbiamo pagato il non aver davvero creato una classe dirigente più aperta e inclusiva, non avere intercettato molte competenze che non chiedevano altro che darci una mano e di mettersi al servizio del Paese.

Che fare adesso? Io credo che dobbiamo ripartire da alcune cose: la coerenza, prima di tutto. Il PD stia in modo trasparente all’opposizione. Prendere il potere (verbo), anche per ragioni di eventuale responsabilità istituzionale, sarebbe percepito come una forma di attaccamento al potere (sostantivo) insopportabile per gli italiani.

Le ragioni del nostro essere Democratici, poi. Abbiamo dei valori che richiedono cura e presidio, in parlamento e nel Paese. Le forze che hanno vinto le elezioni sono brutte, veramente brutte. Io temo una deriva polacca o ungherese, il tentativo di smontare i capisaldi delle democrazie liberali. In questo atmosfera da Weimar del XXI secolo che soffia sul continente, noi dovremo essere lì a proteggerli, quei capisaldi, essendo capaci di spiegare perché la libertà è importante e, anche in tempo di crisi, non è un optional a cui rinunciare in cambio di sicurezza, fisica ed economica.

Dovremo ripartire dalle cose che funzionano. Nella mia Milano, in città, il PD prende il 27% e la Bonino l’8% e conquistiamo 3 collegi uninominali su 5 alla Camera. A Milano, una città che tutto il mondo ci invidia, c’è una giunta di centrosinistra che funziona. C’è un Partito Democratico che funziona: pieno di giovani; un partito che non si occupa tanto del potere ma di avere delle cose da dire e che proprio per questo vince; un partito plurale ma con una visione riformista assolutamente condivisa, e quindi non spaccato e inutilmente litigioso.

Milano deve essere il modello del PD di domani: il partito delle “magliette gialle”, i volontari di tutte le età che si vedono sempre nelle nostre iniziative a Milano, e non il partito di certi capi bastone o di gestori di preferenze che ho conosciuto durante il mio lavoro in giro per l’Italia sia come Vicepresidente del partito, prima di diventare deputato, che come deputato della Puglia nella legislatura appena conclusa.

E da Milano possiamo imparare ancora: perché è vero che abbiamo stravinto in città, ma è vero anche che abbiamo perso in tutte le periferie. Siamo diventati il partito preferito dalle classi abbienti, dagli intellettuali, dalla borghesia illuminata, dagli imprenditori più capaci, in una parola dalle eccellenze di questo nostro Paese. Questo non è certamente sbagliato, sulle eccellenze bisogna sicuramente costruire, ma dobbiamo reimparare a essere a nostro agio anche con gli ultimi, i diseredati, con chi non ce la fa, persone che non ci riconoscono più – e questa responsabilità è nostra, non loro – come potenziali punti di ascolto.

Non so ancora se sarò rieletto, i nomi degli eletti nel proporzionale tardano ad arrivare, e francamente mi pare la cosa meno importante di tutte in questo momento così delicato per il nostro Paese, ma dovessi restare in Parlamento l’impegno sarà, nelle mutate circostanze, quello di svolgere con lo stesso rigore e lo stesso impegno a servizio del Paese il mio ruolo di parlamentare. L’opposizione è la linfa di una democrazia parlamentare.

E poi ci sarà molto da lavorare nel partito per rinnovarlo profondamente, irrobustirlo, ricompattarlo e per tornare a costruire quel rapporto di fiducia con l’Italia che purtroppo oggi, nonostante tutto il buon lavoro svolto, sembra essersi malamente spezzato.