Due banchetti a Via Scarlatti
Mi ricordo benissimo la prima volta che ho visto Roberto Fico. Era il 2005, verso il mese di settembre. Eravamo in Via Scarlatti a Napoli: lui con il banchetto di un allora nascente M5S, io con il banchetto delle primarie che facevo da totale outsider sfidando colossi politici come Prodi e Bertinotti, anche quest’ultimo prossimo a diventare Presidente della Camera.
Sembravamo due un po’ matti: tipo quelli del Partito Umanista, non so se avete idea. O dell’Esercito della Salvezza. Se un giorno mi avessero detto che avrei visto – dal mio scranno in Parlamento, seduto lì come membro del governo – quell’altro matto diventare Presidente della Camera, avrei pensato che il vero matto (e pure pericoloso) era quello che mi stava raccontando quella storia.
Per questo Fico è il grillino che mi pare meno strumentale e sospetto: perché ha calpestato un sacco di polvere con le sue scarpe e perché era del M5S quando non c’erano seggi da occupare e non bastavano una cinquantina di click per sistemarsi e trovare, non avendo né un’arte né una parte, un lavoro ben pagato da deputato o da senatore. Lui è uno che ci ha creduto per davvero, che non si aspettava niente in cambio perché nulla allora il M5S poteva offrire. Lo posso testimoniare. Per cui, tra tanti, bene che sia stato eletto lui.
Questo non toglie che tra me e lui, anche allora, c’era una fondamentale differenza. Io ero e sono un riformista, lui era (e forse è ancora) un rivoluzionario. Il mio sogno era migliorare la politica, il suo era quello di abbatterla. Dubito peraltro che pensasse di farlo tramite una società di consulenza, e dubito che avrebbe accettato l’idea che il massimo successo politico gli sarebbe giunto grazie all’appoggio di un partito lepenista e xenofobo.
Credevo allora che lui fosse semplicemente un discepolo che credeva nel sogno che nasceva dai sermoni di un predicatore. Io sono laico fino al midollo per cui di predicatori, sette o chiese avevo sospetto allora non meno di oggi, ma Fico mi sembrò sin da allora in evidente buona fede.
Non lo vidi mai più fino al 2013, quando entrambi fummo eletti per la prima volta in Parlamento. Avemmo una discussione proprio davanti a Palazzo Montecitorio, di fronte a una selva di telecamere. Lui sosteneva che il M5S non dovesse contaminarsi con i partiti, io gli risposi che il Parlamento si chiama così perché la politica consiste nel parlarsi, nel trovare soluzioni condivise.
Chissà se la carica istituzionale cambierà quell’opinione di Fico, chissà se sarà in grado di rispettare un’istituzione che il suo Movimento ha spesso deriso e umiliato: il Parlamento è tutto il contrario della democrazia diretta e i parlamentari sono, a norma di Costituzione, tutto il contrario di “portavoce” della rete.
Chissà se averlo messo sul più alto degli scranni non serva solo a incasellarlo (assonanza freudiana con la nuova Presidente del Senato) dentro un box cosicché non dia fastidio al manovratore del governo di estrema destra che va preparandosi.
Vedremo, insomma, se sarà un buon presidente oppure no. Che l’idealismo che vidi tanti anni fa nei suoi occhi gli sia d’aiuto.