La vendetta del 4 dicembre
Non deve destare meraviglia il fatto che Luigi Di Maio giustifichi la sua pretesa alla premiership con l’argomento che ogni altra designazione rappresenterebbe un tradimento della “volontà popolare”. Da anni assistiamo alla trista mistificazione della protesta contro i “governi non eletti” avviata da Silvio Berlusconi e ripetuta come un mantra da tutti i giornali e gli schermi della galassia del centrodestra; pur non essendo presente nella nostra Costituzione (e in nessuna democrazia parlamentare tranne quella dello Stato di Israele, per quel che mi consta), l’idea che il Governo sia il frutto di una sorta di unzione popolare diretta, di un responso delle urne, fa parte di quella che potremmo definire la “Costituzione immaginaria”, che ha permeato di sé la (forse) testé abortita Seconda Repubblica.
Sarebbe sbagliato, però, archiviare la questione alla voce puerilità e sciocchezze, che pure non mancano nel vocabolario politico grillino. Il problema è reale. In tutto l’Occidente la democrazia rappresentativa, in misura direttamente proporzionale alla necessaria velocizzazione dei processi decisionali, ha dovuto fare i conti con l’esigenza, di garantire all’elettore non solo l’ovvia scelta di una maggioranza parlamentare e, in conseguenza, di un Governo ad essa omogeneo, ma anche l’indicazione di chi per conto di questa maggioranza parlamentare debba assumersi l’onere e l’onore della guida del Governo.
La Quinta Repubblica francese, come è noto, diede a questa esigenza la risposta più radicale: il semipresidenzialismo, con il sistema del doppio turno. Regime non privo di inconvenienti e di rischi (su tutti quello della “coabitazione” fra un presidente di appartenenza diversa o contraria rispetto alla maggioranza del Parlamento), ma assai efficace, specie dopo la riduzione a cinque anni del mandato presidenziale, nel garantire dinamismo e alternanza.
Altri sistemi, come quello britannico e quello tedesco, hanno fatto ricorso a consuetudini costituzionali, prima fra tutte quella secondo cui diventa premier il segretario del partito che vince le elezioni; di quello che ha la maggioranza dei seggi in Parlamento, indipendentemente dai voti, come avviene nello spietato sistema uninominale del Regno Unito; o di quello che ne ha la maggioranza relativa (Angela Merkel sarebbe stata Bundeskanzlerin per la quarta volta qualsiasi coalizione fosse riuscita a mettere in piedi) come nella Repubblica Federale Tedesca.
E in Italia? I Padri Costituenti rifiutarono recisamente l’opzione presidenzialista (che era difesa da giganti come Piero Calamandrei e Leo Valiani) e, schiacciati fra complesso del tiranno e incipiente “scontro di civiltà” del 1948, rinunciarono sia a dare veste pubblica e personalità giuridica ai partiti (cosa che ha consentito le ambiguità e le commistioni precedenti Forza Italia-Mediaset e quelle attuali Movimento Cinquestelle-Casaleggio&Associati), sia ad investire la figura del presidente del Consiglio di particolare visibilità.
Ne derivò, lungo tutto l’arco della Prima Repubblica, una trafila di presidenti del Consiglio dall’esistenza assai precaria: non era previsto alcun automatismo fra leadership di partito e guida del Governo; al contrario, si teorizzava la loro distinzione, perché un potere ripartito sarebbe stato costretto a maggiore collegialità, faro e totem della democrazia consociativa.
La riforma costituzionale bocciata nel 2016 fu cannoneggiata ad alzo zero per l’eredità di questo riflesso pavloviano, con l’evocazione della deriva autoritaria (addirittura!) per un testo che pure non prevedeva alcun tipo di premierato e una legge elettorale “collegata” che continuava ad essere pienamente inserita nella democrazia basata sui partiti disegnata dalla Carta.
È un’interessante vendetta della storia che, in prima fila a battersi contro quella riforma ci furono quelli che oggi piagnucolano sul rischio che gli elettori, non potendo scegliere il premier, si disamorino della politica, o quelli che mettono il nome del premier nel simbolo elettorale. Dev’essere il fantasma del referendum costituzionale che popola i sogni di coloro che lo affossarono.
Nel 2016 i Di Maio (e i Salvini) non sapevano quel che facevano? Non se n’erano accorti? Possibile, possibile. Ma non si può scartare l’ipotesi che si tratti soltanto, oggi come allora, di semplice mala fede.