Ma che bravi i ministri del PD
Leggo che Luigi Di Maio, intervistato da Floris sugli scenari del possibile Governo, ha elogiato tre ministri del Partito Democratico, per la precisione, in rigoroso ordine alfabetico, Dario Franceschini, Marco Minniti e Maurizio Martina. Mi pare un buon inizio: ammettere che abbiano “operato bene” tre persone che hanno guidato alcuni dicasteri di grande importanza è cosa che mal si concilia con i toni e gli argomenti tradizionalmente utilizzati dal Movimento Cinquestelle contro gli esecutivi e le persone del PD. Ma si fa più festa in cielo per un peccatore che si pente che per cento giusti, ho letto da qualche parte.
Aspetto ora altri coming out del Capo Politico: per esempio riconoscere l’impeccabile prova di Maria Elena Boschi ai Rapporti con il Parlamento; quella di Marianna Madia alla Funzione Pubblica, di Roberta Pinotti alla Difesa, di Carlo Calenda e Piercarlo Padoan, di Graziano Delrio e di Paolo Gentiloni, per poi arrivare all’ammissione definitiva: che Matteo Renzi è stato un ottimo premier, che ha portato a casa con il suo governo un elenco interminabile di leggi, alcune delle quali attese da decenni.
Fuor di celia, e fermo restando che ciascuno è libero di elogiare o di avere in uggia questo o quel ministro, il problema di Di Maio è come sempre quello di scivolare sui fondamentali. Perché il Governo non è un agglomerato di persone, ma un organismo unitario. In questo organismo le qualità individuali, che certamente pesano e sono diverse in ciascuno, rifulgono o cadono in ombra in base alla capacità della squadra di essere tale.
Nella mia esperienza di sottosegretario questo dato è stato di palmare evidenza: ho messo tutto il mio impegno nell’occuparmi di commercio estero e dell’attrazione investimenti, ma l’ho fatto sempre e soltanto nel quadro di indirizzi e di scelte complessive dell’Esecutivo, anche con specifiche collaborazioni operative interministeriali.
E’ per questo (ditelo a Di Maio), che si tiene il Consiglio dei Ministri: perché un organismo collegiale compie scelte concertate, discute, pondera, media, vota. Nessun uomo di Governo opera nel proprio orticello in condizioni di isolamento più o meno splendido.
Quando Silvio Berlusconi chiese a Pietro Ichino, di cui apprezzava le idee sul mercato del lavoro, di diventare ministro della materia nel proprio Governo, questi rifiutò, non senza ringraziare, proprio perché un Governo non è un assemblaggio di pezzi di politiche diverse e spesso inconciliabili, ma la loro sintesi, il loro organo – per l’appunto – esecutivo.
Il ministro, che non a caso ha nella propria radice il termine latino minus (un sottoposto, un sottoordinato, un servitore), è la conseguenza, non la premessa, di un progetto, di un’idea di Paese e di futuro, di una delle molte possibili risposte alla domanda “che fare?”.
Risposte che Di Maio sembra possano essere declinate indifferentemente con il Pd o con la Lega (peccato che Potere al Popolo non abbia raggiunto il quorum. E anche Casa Pound). Forse la banale ragione è che quelle risposte non ci sono.