Non ho scritto nulla e non scriverò per il momento nulla sulla tragedia di Genova, perché questo dovrebbe essere il momento del silenzio, il momento del rispetto. E anche il momento del lavoro: di chi ancora scava e cerca i dispersi, di chi deve accertare e punire tutte le responsabilità.
L’Italia sembra invece un Paese in una specie di guerra non dichiarata: fratturato e rotto come l’immagine dello stesso ponte.
Anche davanti a questo disastro gli italiani – e, lo dico con grande chiarezza, questa è interamente una responsabilità delle forze di governo e della loro visione barbarica della politica – sembrano l’uno contro l’altro armati, in una dinamica che è fatta sostanzialmente di urla e di attacchi scomposti da un lato e del necessario tentativo di difesa dall’altro.
Una dinamica – che abbiamo già visto ricorrere frequentemente in questi mesi di governo – rivolta a speculare su qualsiasi difficoltà, piccola o enorme, al fine di danneggiare l’avversario politico e a spogliarsi dalla responsabilità, che spetta esclusivamente a chi governa, di utilizzare ogni mezzo a propria disposizione per comprendere e gestire quella medesima difficoltà.
Ma se nemmeno davanti a questa carneficina si riesce a trovare un po’ di umana pietà, un momento di silenzio e di compostezza davanti a decine di cadaveri ancora caldi, se il livello dello scontro che si vuole tenere è questo, c’è davvero da essere molto preoccupati.
Perché le guerre, pur non dichiarate, alla fine sempre guerre sono. E le guerre non portano mai nulla di buono.