“Se è successo una volta, può succedere di nuovo.” Questo ho pensato, uscendo ieri sera da Auschwitz con negli occhi le tonnellate di capelli di donna recisi e le scarpe, e gli occhiali, e le protesi, e le valigie, e i pentolini, e i vestitini, e i pennelli e le spazzole e i rasoi e le creme tolti ai prigionieri da vivi o da morti.
Tra tutte le parole di Sami Modiano e Tatiana Bucci, che ad Auschwitz sono entrati rispettivamente a 13 e 6 anni, quelle che mi porto a casa tutte hanno a che fare con le madri e con la maternità. La madre di Sami, morta prima che tutto accadesse: “Ho ringraziato Dio per aver pianto mia madre a 11 anni, perché averla persa allora le ha risparmiato di dover fare il viaggio verso il campo chiusa in un carro bestiame dovendo usare davanti a tutti un bidone come bagno”.
E la madre di Tati, scesa dal vagone sulla Judenrampe con le sue bambine, risparmiate perché forse credute gemelle e minacciate da un destino di cavie. Con stupida ovvietà, camminando tra le baracche le ho detto: “Il fatto che di tanto in tanto vedeste vostra madre per te e la tua sorellina dev’essere stato di grande conforto” e lei mi ha risposto tutto il contrario, che no, nessun conforto, perché quella donna calva e scheletrica “non era più la nostra mamma”.
Il fatto è che lì dentro la logica non era più parte della realtà. Qual è mai la logica che può avere cittadinanza in un posto dove una bambina di sei anni ha un numero tatuato su un braccio e la madre ogni volta che la vede deve dirle “Ricordati che tu sei Liliana Bucci. Non dimenticare il tuo nome: tu sei Liliana Bucci”. Tu sei un nome e un cognome, bambina mia, e nemmeno quello di casa ma quello dei tuoi documenti di cittadina e di persona. Non pensare nemmeno per un istante che tu sia il numero che ti hanno marchiato addosso come un cucciolo di bestia.
La scrupolosa macchina industriale per uccidere e distruggere cadaveri delle cui rovine abbiamo fatto esperienza ieri lascia senza fiato non soltanto per la sua limpida efficienza ma soprattutto per la volontà umana che l’ha concepita, costruita, gestita, sostenuta, vista e accettata. Milioni di complici di una cosa oggettivamente mostruosa che non hanno avuto né la volontà né l’urgenza né la forza di fermare.
Come può un intero popolo trasformarsi in un mostro feroce? Come non so, ma che possa mi pare evidente: è successo, è possibile. Del resto non ho alcun bisogno di chiedermi come il nostro orgoglioso concittadino, quello che davanti alle telecamere ha definito “zecche” i bambini di Lodi si sarebbe comportato se fosse vissuto da queste parti 75 anni fa. Anche Tatiana bambina era più o meno un insetto, per chi l’aveva portata fin là. E un insetto, si sa, si schiaccia.
Né, manco a dirlo, devo chiedermelo della brutta signora (è un rilievo etico, non estetico) che si è messa addosso una maglietta con il cancello di Birkenau e il lettering della Walt Disney Co., o di quella capotreno delle Ferrovie Nord che ha fatto sapere a tutto il convoglio che i Rom sono dei grandissimi rompicoglioni. I nazisti, che di Rom e Sinti qui ne sterminarono a decine di migliaia, in fondo si limitarono a mettere in pratica con teutonica precisione la medesima opinione.
Lattanti uccisi perché nati, persone con disabilità uccise perché inutili, adulti uccisi per far spazio – lasciare ad altri la propria terra, la propria casa – ed evitare di contaminare la purezza della razza. E tutto che pareva così perfettamente ordinato, legittimo e normale.
Abbiamo visitato Auschwitz-Birkenau in un giorno di sole radioso che non c’entrava veramente niente con tutto il dolore del mondo che sembra essersi insinuato in questo pezzo altrimenti anonimo della piattezza polacca, con tutti i morti ammazzati che dormono nei tronchi degli alberi e nelle foglie, risucchiati dalle radici che affondano in quella terra così intrisa di milioni di gomiti, di nasi e di cosce che quasi fa male calpestarla.
In un caldo anomalo di fine ottobre che regalarlo a noi mi è parsa una bestemmia (avessi potuto l’avrei volentieri scambiato con un qualunque lunghissimo giorno di gelo tombale che quei disgraziati dovettero vivere e soffrire), le parole di Sami e Tatiana – nonostante tutto quel blu – non sono state parole di sole. Erano parole di bruma, di nebbia, di pioggia e freddo. Parole di “rane di inverno”. Tutto lì è come una rana d’inverno. Si capisce benissimo perché in un posto così non si lasciano fiori, si lasciano pietre.
Alla fine della visita, era quasi buio. Ci siamo fermati davanti al muro della morte, il luogo delle esecuzioni. Una donna, una delle persone che erano in viaggio con noi, ha intonato la melodia che si cantava andando a morire – Anì maamin, “Io credo” – lugubre e lentissimo canto di fede, nonostante tutto. Uscendo da lì, noi che abbiamo potuto, camminavamo in silenzio sul terreno sconnesso tra i blocchi di Auschwitz e gli occhi, gli occhi non vedevano quasi più nulla.