Innanzi tutto erano bellissime, le torri gemelle. Per me, ma dev’essere la potenza della nostalgia, lo skyline di Manhattan di oggi non ha nemmeno lontanamente la potenza iconica che aveva prima dell’11 settembre del 2001. In questa foto ero in vacanza lì, era il 1998. Tu non dovevi fare nulla. Braccia conserte, un sorriso abbozzato. La foto la facevano tutta loro due: altissime, bianchissime, parallele, nel loro verticale ottimismo, eterne.
E poi, nulla, c’è un prima e un dopo. Ormai i ragazzi nati subito prima o subito dopo quella data sono adulti e non c’è traccia nella loro memoria di quanto e come siano cambiate le nostre vite da quella specifica, sola e fatale giornata.
Lavoravo per una grande banca americana. Quei giorni furono giorni apocalittici: lo spazio aereo americano era completamente chiuso, sigillato, non volava nemmeno una mosca. C’era questo senso di assurda sospensione in cui tutti ci trovammo, tra un passato che era finito e un futuro di cui non avevamo esattamente idea: “Siamo in guerra? Ma con chi?”, e il senso di lutto angoscioso che tutti vivemmo nelle ore e nei giorni successivi agli attacchi da noi a Citi si manifestò tra le mille altre cose con il rispondere a tantissime telefonate di condoglianze.
La gente faceva le condoglianze a me, che non avevo perso nessuno in quegli attacchi e che non ho nemmeno un passaporto americano, solo perché rispondevo al telefono da lì. Facevano le condoglianze a me perché il senso di cordoglio era talmente straripante che si voleva in qualche modo manifestarlo, in qualsiasi modo, attraverso qualsiasi filo che potesse comunque portare tutta quella commozione fin dall’altra parte dell’Atlantico.
Dovevo partire per Roma, quel martedì pomeriggio. La prima torre era caduta che ero ancora in ufficio in Foro Buonaparte, la seconda mi cadde davanti agli occhi dai monitor di Linate. Ero con un collega, avevo già la carta di imbarco pronta ed eravamo ai gate. Il grande capo della sede italiana era nell’Europa dell’Est, mi pare in Polonia. Io avevo la responsabilità del personale, il collega che viaggiava con me era il capo della struttura operativa. Al secondo crollo decidemmo che non potevamo partire insieme e renderci irreperibili mentre non si aveva idea di cosa stesse succedendo: era stato colpito anche il Pentagono, un altro aero era precipitato e non si capiva quanti ancora volassero impazziti e verso dove.
Non mi era mai successo prima (e mai più mi è successo nella vita) di dire carta d’imbarco alla mano alla hostess al gate che non sarei partito, che poi è anche un casino dal punto di vista delle procedure. Ma tornai verso l’ufficio. Da Londra ci avevano detto di evacuare tutti, far tornare a casa tutti i colleghi: essere un’azienda americana, la stessa ragione per cui diventammo protagonisti del cordoglio nei giorni a venire, faceva temere in quel momento che le nostre sedi nel mondo potessero essere oggetto di attacchi.
La banca era vuota, rimanemmo in pochi, davanti ai televisori, paralizzati. Increduli.
Alla fine del pomeriggio crollò anche il 7 di WTC (le torri erano i numeri 1 e 2). Era uno dei palazzi in cui lavoravano dipendenti della banca, per fortuna completamente evacuato per tempo durante la giornata. A New York quel giorno perdemmo sei colleghi, che erano casualmente nelle torri per dei meeting o delle viste a clienti. Un nostro corrispondente, Cantor Fitzgerald, che aveva gli uffici tra il 101° e il 105° piano della torre nord, perse 658 dipendenti: quasi il 70% della propria forza lavoro.
Dall’altra nostra sede in Greenwich Street a SoHo si vedeva tutto: la gran parte dei miei colleghi assistettero a quell’apocalisse dal posto di lavoro. In linea d’aria la distanza era nulla. Molti anni dopo, lavoravo a Londra, andai a NYC a trovare il mio capo, una donna giovane e tostissima già all’epoca molto senior e oggi una dei principali dirigenti della banca.
Nella suo ufficio c’era un televisorino, silenziato ma perennemente acceso. Ebbi per un momento l’istinto di chiederle perché. Fu solo un attimo.