Ieri è scaduto il termine che la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva assegnato all’Italia per sanare la terribile situazione delle nostre carceri: essere sottoposti a una pena detentiva in Italia equivale, secondo la CEDU, a un trattamento inumano e degradante. Una specie di tortura. Così, poche ore prima della scadenza dell’ultimatum europeo, con Luigi Manconi, Walter Verini, Danilo Leva, Sergio Lo Giudice e altri colleghi, accompagnati dai dirigenti dell’Associazione Antigone, siamo andati a fare una visita al carcere di Regina Coeli a Roma per vedere come stessero le cose.
Entrare in un carcere è una delle esperienze più forti che si possano immaginare: le sbarre, gli occhi che ti guardano dalle feritoie nei portoncini, la barriera invisibile che ti pare di penetrare quando allunghi una mano tra le grate per stringere la mano di un detenuto. Le storie delle persone: chi è dentro da più di due anni per essere stato trovato con quindici grammi di hashish, la guardia che ti dice che è impossibile fare quel lavoro senza eliminare l’aspetto personale, troppe sono le storie, troppo vari i casi individuali. Le celle, quei letti a castello altissimi, tre piani fino al soffitto, immagini sacre e donne nude alle pareti. Quell’odore di rancido nei muri antichi. Il direttore che dice che, sì, è possibile che non ci sia carta igienica per giorni, perché per la carta igienica ci si affida al volontariato: i fondi non bastano nemmeno per cose che noi cittadini liberi consideriamo assolutamente indispensabili.
Qualcuno riflette che abbiamo tolto anche le gabbie negli zoo, perché abbiamo capito che a stare dentro una gabbia gli animali diventano più cattivi, ma che le carceri sono sempre lì. La CEDU dice che il nostro problema non è solo lo spazio – circa 3 metri quadri a detenuto, quando le regole UE prevedono che ogni maiale adulto abbia in allevamento almeno 6 mq di spazio – ma anche il tempo. Le celle dovrebbero essere aperte almeno 8 ore al giorno e i detenuti dovrebbero poter circolare liberamente in sezione, ma così non accade dappertutto e quando accade quel tempo di 8 ore, che dovrebbe essere il minimo, diventa il massimo consentito.
Il problema della pena, della repressione e della prevenzione, è un tema complicato. Quello della “rieducazione”, peggio ancora. Ma certo è che troppa gente è in prigione senza che sia necessario: la Fini-Giovanardi, fino alla dichiarazione della sua incostituzionalità, che però non ha sortito si qui particolari effetti, è stata responsabile della carcerazione di due detenuti su cinque. Il lavoro in carcere è ancora un’eccezione, quando potrebbe diventare lo strumento per evitare l’abbrutimento e preparare al reinserimento all’uscita di prigione.
Andrea Orlando, il ministro della giustizia, sta lavorando alla riforma del nostro sistema giudiziario e anche all’esecuzione penale. Il parlamento e il governo Letta hanno fatto alcune cose importanti, altre le sta facendo questo governo: introduzione di sanzioni alternative al carcere, messa alla prova, revisione della custodia cautelare (in Italia il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio, la metà in attesa addirittura del primo grado). Ma c’è ancora tanto da fare. A partire dal tenere accesa una luce su questa realtà: le carceri non sono altro da noi, sono parte di noi. Non sono discariche indifferenziate di rifiuti umani, ma parte della nostra società. Bisogna parlarne, e continuare a parlarne.