Un articolo di Repubblica, oggi, dice che in UK esiste una formula di reintegro sul posto di lavoro simile a quella prevista dall’articolo 18.
Posso dare la mia testimonianza diretta, avendo fatto il direttore del personale per più di quattro anni da quelle parti. Il reintegro a Londra non si usa, mai. Nemmeno in caso di gravi discriminazioni. In quel caso c’è il meccanismo, giustissimo e molto pesante per il datore di lavoro, dell’inversione dell’onere della prova (dev’essere il datore di lavoro a provare l’assenza di discriminazione, sia “diretta” – contro quel lavoratore – che “indiretta” – costituita dall’avere un clima oggettivamente discriminatorio in azienda: per esempio pochi part-time concessi sono un indizio di discriminazione indiretta contro le donne).
Dopodiché ti possono condannare anche a un risarcimento da due milioni di sterline che ti fa finire sulle prime pagine dei giornali e ti espone al pubblico disprezzo (in UK la discriminazione è una cosa seria, da noi le cause per discriminazione sono una vera rarità), ma il reintegro non rientra nel novero delle cose che succedono. In più di 4 anni, lavorando in un’azienda con 10 mila dipendenti, non ho visto nessun reintegro. Né, mai, una delle costosissime legal firms che facevano consulenza per noi mi ha messo in guardia dal rischio di un reintegro. Reputational risk, sì. Financial risk, pure. Ma Reinstatement risk, mai.
In compenso, in quattro anni a Londra, non ho mai assunto una persona facendole aprire una falsa partita iva per farle poi fare lo stesso mestiere dei suoi colleghi più anziani ma senza concederle il diritto a ferie, malattia, gravidanza.