Lo striscione di Silvio Pellico
Sepolto nei lavori parlamentari in questa estenuante maratona, ho letto con un po’ di ritardo dell’incredibile e incresciosa vicenda dello striscione insultante che mani ignote hanno affisso a Milano vicino all’abitazione di Benedetta Arese Lucini, general manager in Italia di Uber.
Accusata di meretricio e di prestazioni sessuali gratuite verso l’assessore comunale Pierfrancesco Maran, la Lucini ha la “grave colpa” di essere alla guida di un’impresa controversa, che in tutto il mondo sta provocando sconquassi nel mondo delle autovetture pubbliche.
Non tutte le idee intelligenti e moderne hanno esclusivamente ricadute immediatamente positive: esse possono infatti mettere a nudo fragilità sociali, creare difficoltà rompendo schemi e antiche abitudini, e, sul breve, vanificare investimenti. Capisco le preoccupazioni, la protesta, la rabbia dei lavoratori. Non mi schiero fra quanti, in nome del progresso, non si interrogano sulla sorte di chi sta dalla parte “sbagliata” della vicenda.
Ma quello striscione testimonia in modo imbarazzante che a Benedetta Arese Lucini si rimprovera soprattutto di essere una donna, una donna capace, e dunque di essere quello che i beceri di ogni risma e di ogni età ritengono siano le donne (e particolarmente quelle capaci): cortigiane ed etére, speculatrici del sesso, con l’ovvia eccezione della madre, della sorella e della moglie di chi pronuncia l’anatema.
Cosicché la giusta espressione di una preoccupazione, la rivendicazione di un intervento, finiscono per confondersi nella grande palude della conservazione italiana; quella trasversale ed ubiqua che vedo impennarsi ogni giorno in Parlamento. Quella dell’ostilità e della diffidenza verso qualsiasi movimento o rinnovamento, che per ciò stesso si rifugia nel becerume più retrivo.
Il Satam, il sindacato artigiani tassisti, si è dissociato da questa azione indegna, gliene va dato atto. Ma forse dissociarsi non basta: ci vuole un’azione attiva per non dare cittadinanza agli stupidi, per delimitare il perimetro di ciò che distingue una vertenza sindacale anche aspra da un ripugnante atto di aggressione, sia verso la manager che verso l’assessore.
Mi piacerebbe che i tassisti milanesi comprendessero che quello striscione è per la loro causa quello che “Le mie prigioni” di Silvio Pellico fu per l’Austria: peggio di una guerra perduta.