Con altra gente
Non ho mai scambiato nemmeno due parole a tu per tu con Denis Verdini e non sono mai stato particolarmente affascinato dalle sue posizioni politiche. Nel mio libro “Ma questa è la mia gente” ci sono le interviste a Finocchiaro, Rosy Bindi e D’Alema, ma non certamente una conversazione con Verdini. Verdini non è certo la “mia gente”, non lo sento e non è parte della comunità politica e umana cui appartengo.
Chiarito questo in premessa una volta e per tutte, devo però dire che faccio fatica a capire perché Verdini sia un alleato “potabile” solo quando con il suo voto sostiene il Governo presieduto da Enrico Letta e con un viceministro all’economia di nome Stefano Fassina (che sono altri due personaggi del mio libro, due della “mia gente” – anche se oggi uno ha lasciato la Camera, l’altro addirittura il Partito). Quando invece Verdini si propone, peraltro in coerenza con l’accordo sottoscritto a suo tempo da Forza Italia, di appoggiare (rectius: di continuare ad appoggiare) la riforma costituzionale sulla quale il suo partito ha mutato pensiero dopo averla scritta e votata, allora c’è molta gente tra la “mia gente”, per la quale Verdini diventa repentinamente Satanasso in persona.
Insomma, non mi convince per nulla la posizione di chi dice, come Pierluigi Bersani (un altro che pure sta nel mio libro e per fortuna anche tra la “mia gente”), che sulla riforma costituzionale, visto il rilievo e la portata storica della decisione, non vi è disciplina di partito, e però ammonisce la maggioranza del partito a non provare a compensare i voti che mancano all’interno con eventuali apporti esterni. O un tema è – come io credo – pienamente all’interno di una scelta dei partiti (e questo significa che, dopo ampio confronto e discussione, viene fuori una decisione impegnativa per tutti all’interno di ciascun partito) o fa eccezione in quanto “questione di coscienza”, e allora ciascun parlamentare voterà sulla base della propria coscienza, a qualsiasi partito appartenga. Se vale per Bersani e Gotor, varrà pur bene per Verdini.
Al di là di queste questioni metodologiche e al di là delle convergenze occasionali fra diversi, la “questione verdiniana” pone però problemi politici più ampi, molto ben riassunti dall’intervista rilasciata a Repubblica da Pierferdinando Casini, che potremmo sintetizzare con il titolo “i moderati dispersi”. Il destino manifesto del centrodestra italiano sembra essere quello della deriva salviniana: una leadership estremista, xenofoba ed antieuropea, con marcate tinte poujadiste, molto lontana dagli ideali della mancata rivoluzione liberale del primo Berlusconi e antipodica al popolarismo di don Sturzo e De Gasperi o Aldo Moro. Il disagio, anzi il “non possumus” di Casini, che è lo stesso di Alfano, di Lupi, e anche del mio nemico giurato Carlo Giovanardi, dice qualcosa anche a noi? Interroga anche il Partito Democratico?
Io penso di sì. Non credo che la migliore risposta sia “Arrangiatevi”, come nel vecchio film di Totò e Peppino sulle case chiuse. Il progetto riformatore di una forza chiaramente progressista, e parte del Partito Socialista Europeo, come il Pd deve fornire sponde e luoghi inclusivi anche a questi moderati smarriti. Soprattutto agli elettori, ma senza ignorare le soggettività politiche a cui hanno dato vita. Più un progetto politico ha un’identità forte e una visione chiara, meno deve limitare la propria capacità di essere attrattivo per paura di contaminarsi o di perdere l’anima.
Senza inutili minestroni o esperimenti di laboratorio, bene dirlo con chiarezza, e soprattutto senza tentazioni di larghe intese bonsai: il nuovo sistema elettorale, peraltro, è fatto apposta per escluderle. Ma non si deve perdere la consapevolezza che il grande cantiere delle riforme non è San Giovanni d’Acri, la rocca assediata del regno crociato in partibus infidelium. Le riforme, e più che mai quelle costituzionali, non possono che essere il luogo inclusivo delle pluralità e degli apporti molteplici. Le riforme costituzionali, per definizione, si fanno anche con altra gente.