La prevalenza della forma
Personalmente considero pazzesco, scriteriato e irresponsabile che si possa repentinamente indire un’assemblea sindacale e lasciare migliaia di turisti sotto il sole impedendo loro l’accesso al Colosseo, per di più indicando in un cartello che l’assemblea si concluderà alle 11pm (che in inglese sono le 23, non le 11). Non credo, naturalmente, che i lavoratori che hanno partecipato a questa assemblea o i sindacati che l’hanno indetta siano animati da puro sadismo e dalla volontà di sterminare fisicamente i turisti per insolazione e disidratazione; men che meno credo che il mondo sarebbe un posto migliore se il diritto di sciopero e di assemblea fosse cancellato o attenuato.
Credo però che le ennemila modalità con le quali si sarebbero potuti garantire questi diritti senza infliggere un’ingiusta vessazione agli incolpevoli turisti, e la devastazione della reputazione dell’Italia nel mondo, sarebbero state trovate ed applicate in automatico se non fosse stato smarrito il senso della misura. In altri termini, se il diritto riconosciutomi dalle leggi di riunirmi in assemblea con i miei colleghi per dieci ore all’anno regolarmente retribuite si traduce nella mia testa in una licenza di chiudere ad libitum uno dei monumenti più famosi del mondo significa che sono fuori come un balcone, come dicono a Milano (ma si capisce benissimo anche a Roma).
In qualsiasi settore il legittimo esercizio dei diritti sindacali deve fare i conti, di necessità, oltre che con la legge (specie se si tratta di servizi essenziali), anche con la concreta situazione sulla quale vanno ad incidere. L’autista di uno scuolabus non è autorizzato, dovendo partecipare ad un’improvvisa assemblea, a piantare il veicolo con il suo carico di bambini nel bel mezzo del tragitto; la ferrista di sala operatoria non mollerà sul più bello il chirurgo per qualche sua legittima rivendicazione; gli agenti di polizia penitenziaria non spariranno repentinamente dai plessi carcerari, magari lasciando aperte le porte delle celle. E così via.
Certo, i turisti non sono tutti minorenni, le tre ore di chiusura non hanno provocato decessi – anche se molti avevano biglietti con l’ingresso fissato un certo orario e magari arrivavano dall’Australia e non avranno altre occasioni nella vita intera per visitare quel sito – e Roma offre bellezze di così vasta estensione da avere probabilmente garantito ai visitatori di che rifarsi del contrattempo. Ma la sproporzione fra il beneficio goduto dai lavoratori e il danno terrificante e irreparabile inflitto all’immagine del Paese è tale da sbalordire.
Perché, a ben vedere, a Roma (come in precedenza a Pompei) non è stato esercitato un diritto, ma praticata un’esibizione muscolare, cercata ed attuata una prova di forza che ha le caratteristiche di una brutale prevaricazione. Che il sindacato nazionale, a partire dai suoi massimi vertici, anziché prendere vigorosamente le distanze da questo gesto idiota e scellerato, difenda la prevalenza della forma (che peraltro non mi risulta sia stata messa in discussione da alcuno) è ben triste, ma purtroppo non inaspettato. Diventa difficile però, dispiace dirlo, trovare un minimo di accordo su qualsiasi cosa con chi segue – financo dietro la nobile motivazione di voler difendere un diritto – un approccio logico di questo tipo.