Alberto Asor Rosa ed Eugenio Scalfari sono, ciascuno nel proprio campo, due monumenti: senza “Scrittori e popolo” la critica letteraria italiana sarebbe priva di un contributo fondamentale e senza l’Espresso e Repubblica il giornalismo italiano sarebbe più povera cosa. Questa indiscutibile eccellenza rende forse più triste leggere certe interviste e certi editoriali del tutto indegni della loro fama. È vero che, come dice Orazio, talora sonnecchia anche il buon Omero; ma nel caso di Alberto ed Eugenio il pisolino pare particolarmente profondo e duraturo.
In un’intervista al Fatto di qualche giorno fa, Asor Rosa aveva rinverdito contro Renzi e il Pd l’antica diagnosi di mutazione genetica fatta a suo tempo per il Psi di Craxi. Una posizione nutrita dallo stesso settarismo e dalla stessa incapacità di leggere la realtà da cui sorse quella di allora. Più ancora dell’inconsistenza di merito, colpisce l’approccio terminologico e starei per dire epistemologico.
La mutazione genetica postula infatti una razza pura, un’ortodossia ineccepibile da cui ci si può distinguere solo per deriva o degenerazione; sfuggì allora e sfugge oggi ad Asor Rosa che invece la mutazione è il presupposto di qualsiasi evoluzione. Mutò geneticamente il Partito Comunista Italiano da Bordiga a Togliatti, ed ancor più da questi a Berlinguer. Ed anche allora ci furono asorrosiani ante litteram che fecero piovere le loro impettite scomuniche esplicite o implicite.
È verissimo che il Partito Democratico è un aliquid novi nella tradizione della sinistra italiana, e lo è ancor più che Matteo Renzi (come già hanno fatto un certo Tony Blair in Gran Bretagna e un certo Gerhard Schroeder in Germania) abbia accelerato i processi di smantellamento di ruggini, impacci e burocrazie che venivano misteriosamente considerati di sinistra. Ma non c’è alcun mutamento di collocazione o di strategia.
Se possibile è ancora più lunare la tesi sostenuta da Scalfari nel suo odierno editoriale di Repubblica. Il fatto che i sondaggi accreditino comunemente un maggior gradimento di Matteo Renzi rispetto a quello ricevuto dal Pd, diventa nella sua lettura la prova provata dello smottamento a destra che riguarderebbe il Pd, divenuto addirittura il nuovo centrodestra italiano (senza neanche pagare il copyright ad Alfano).
Non so se in Germania o negli Stati Uniti si facciano sondaggi di questo tipo, ma sono sicuro che il gradimento di Obama sia superiore a quello dei democrats e quello di Merkel superiore a quello della Cdu. Si chiama personalizzazione della politica o democrazia carismatica, ed è un fenomeno su cui riflettono da alcuni decenni diversi politologi e sociologi.
Nel caso di specie, poi, c’è un evidente difficoltà delle forme organizzative e del radicamento territoriale del Partito Democratico, che può essere percepita in modo negativo. Inoltre, così come ci può essere chi è insoddisfatto del Governo, ma approva l’azione delle amministrazioni locali a guida Pd, può esserci (e molti indizi fanno ritenere che questo secondo aspetto sia più rilevante) chi approva l’azione riformatrice del premier e del Governo (le due cose non coincidono obbligatoriamente) e che magari non trova brillantissime le performance del Pd a livello locale.
Ma Scalfari, come Asor, non ha dubbi: Renzi è più gradito perché piace all’elettorato di destra. Ora, ammesso che abbia un senso immaginare una realtà fluida e mobilissima come l’attuale con le vecchie categorie di insediamento e radicamento dei partiti, penso sia la prima volta che il consenso viene utilizzato come atto d’accusa: Renzi piace, quindi ha torto. E se fosse proprio questo, il consenso, l’anomalia genetica di Renzi?