Non parlo volentieri delle scelte di quanti si sono allontanati dal Partito Democratico. Penso che, al netto dei comportamenti di qualcuno (statisticamente, si sa, il cretino si trova in ogni famiglia), si tratti di percorsi che sono frutto di un travaglio autentico, di un interrogarsi sofferto, di opzioni che nessuno deve deridere o disprezzare, pur nel molto che ci divide da queste posizioni.
Non ribadisco, quindi, le forti perplessità che nutro rispetto a Sinistra Italiana, a Possibile, alla Coalizione Sociale e a tutte le variegate forme con cui il massimalismo è tornato a presentarsi nel dibattito politico italiano. C’è però un punto che mi pare meriti di essere sottolineato, in diretto collegamento con quanto scrivevo l’altroieri a proposito dell’etica dei principi e di quella della responsabilità: il rifiuto, starei per dire il rigetto, di quella vocazione maggioritaria che ha costituito il nucleo fondativo del Partito Democratico e ne fa uno strumento che eredita e supera l’esperienza dell’Ulivo.
Nel 1994 la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto non venne affondata da Silvio Berlusconi per un’oscura congiura dei fati, ma perché era intrinsecamente debole e inadeguata, incapace di entrare in connessione sentimentale con la maggioranza degli Italiani; cercò di vincere approfittando dello scacco tattico inflitto ai partiti moderati da Tangentopoli. Ma anche in politica e alle elezioni vale la celebre frase di Lavoisier: nulla si crea e nulla si distrugge; tutto si trasforma. I moderati, orfani dei loro riferimenti tradizionali, con la crisi della Dc che scoperchiava gli animal spirits dell’anticomunismo italiano, si precipitarono a votare Forza Italia, Lega Nord, Ccd e MSI-Alleanza Nazionale.
L’Ulivo nacque per fare e proporre qualcosa di meglio, per essere una coalizione che in prospettiva sarebbe diventata una forza politica unita, ancorché plurale. Un’idea bella e fragile, che non resse ai teorici del centrosinistra col trattino, quelli per cui l’Italia doveva essere dannata ad essere l’unico grande Paese occidentale a non poter avere una forza di salda natura riformista, ma un agglomerato più o meno sghembo vocato all’opposizione o, in caso di fortunosa vittoria, a non governare.
Ora, quando leggo interviste e dichiarazioni che proclamano, non senza ottimismo e baldanza, che esisterebbe, per una forza politica a sinistra del Pd, un’area di consenso potenziale che potrebbe arrivare al 15%, mi viene spontaneo ricordare la risposta che Palmiro Togliatti diede ad un entusiasta Giancarlo Pajetta che gli comunicava telefonicamente di avere occupato la Prefettura di Milano: “Bravo. E adesso che ci fai?”.
Ecco, cari compagni che vi state inerpicando su questi cammini impervi, che ci farete con il vostro 15%, ammesso e non concesso che lo prendiate? Sognate il ritorno agli evi remoti della Prima Repubblica, quando il risultato elettorale veniva delibato nelle sfumature degli zero virgola, allo scopo di far funzionare in modo corretto il manuale Cencelli?
Capisco che apparentemente la vocazione minoritaria presenti dei vantaggi: invece di sgobbare per fare in modo che le mie tesi diventino maggioritarie o incidano in modo significativo sulle scelte della maggioranza (dentro uno stesso partito, dentro una stessa comunità) mi faccio la mia postazioncina da cui rinuncio a governare la realtà, ma in compenso posso negoziare qualche seggiola dalla quale minacciare qualcosa al solo fine di rivendicare un compenso. E’ una rendita di posizione e ha la medesima altissima funzione politica del posto di blocco di Benigni e Troisi nel film “Non ci resta che piangere”: «Alt! Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!».
Il problema è che questa idea dei partiti e della politica non è soltanto un tantino deprimente: ha il serio problema di parlare ad un’Italia che non c’è più, che è organizzata materialmente e mentalmente in modo diverso, che chiede altro. Criticare la modernità è cosa buona e giusta, se serve a non farsene schiacciare e a governarla meglio; ma è esiziale maledirla per chiamarsene fuori, come ha capito bene anche Bersani. Con tutto il rispetto, prima di chiudere voi stessi e il pezzo di Paese che ambite a rappresentare dentro l’ennesimo recinto, penso avreste fatto meglio a pensarci due volte.