La lezione di Jorge da Burgos (a due settimane dai fatti di Parigi)
Sono più di due settimane che sto seduto accanto alle mie emozioni, cercando di metabolizzare in qualche modo i fatti di Parigi. Parigi è casa: quella sera mentre davanti alla tivù seguivamo il tragico dipanarsi dei fatti, scoprivo che in città c’erano molti amici che naturalmente nemmeno sapevo fossero lì (se uno va in Giappone o in Patagonia, forse avvisa gli amici; se va a Parigi, certamente no) e del resto io stesso ero stato a Parigi per qualche giorno nel mese di agosto. Nel secondo arrondissement, a due passi da République e da Boulevard Voltaire.
La vicenda di Parigi è stata insomma un lutto anche individuale, del tutto assimilabile a quel senso di perdita, privata e irreparabile, che avevamo provato dopo l’undici settembre. Una specie di violazione di domicilio dell’anima, un evento assolutamente interno alla propria sfera personale, un fatto a cui non si è assistito da spettatori, ma che si è vissuto direttamente, su se stessi. Per la semplice constatazione che è accaduto ad altri e non a noi stessi soltanto per un mero gioco del caso. La quotidianità e naturalezza dei gesti colpiti – mangiar fuori, star seduti al tavolino di un caffè, ascoltare un concerto o andare allo stadio – ha detto a ciascuno di noi che in fondo, dopo il 13 novembre, siamo tutti in un certo senso dei superstiti.
In tutta questa vicenda così dolorosa, quelli che mi sono sembrati enormi sono stati i cari di Valeria Solesin. Così composti e così determinati, così civili e così lucidi e saldi nei loro valori. Abbiamo capito che persona dovesse essere Valeria dalla personalità di sua madre e di suo padre. Dalle lacrime inconsolabili di suo fratello, dai baci di bambino sulle gote di sua madre. Dalla compostezza del suo compagno, lui sì superstite vero e testimone di un momento che gli segnerà l’esistenza per intero.
Il funerale di Valeria è stato l’esempio perfetto di quella che con tutte le mie forze vorrei fosse la nostra società: un posto dove ciascuno può essere a suo agio con gli altri, nella consapevolezza di avere tutti il proprio posto senza che nessuno pensi di poter esercitare un monopolio. Dove ogni differenza sa di essere pienamente riconosciuta come parte del tutto, ma sa anche di dover necessariamente far spazio a quella degli altri. Una società non omogenea e non priva di valori, che non cresce per sottrazione, perché ciascuna cultura, ciascuna religione, ciascun punto di vista, ha un suo spazio accanto a quello degli altri e tutti dalla propria porzione riconoscono la legittimità e il valore dell’intero – e di se stessi come parte integrante di quell’intero – che è lo Stato, la democrazia, la Repubblica.
Per questo il titolo di Libero sui bastardi islamici mi ha indignato. Anzi, ho pensato e scritto, e continuo a pensare, che possa integrare alcuni reati previsti e puniti della Legge Mancino, e non credo affatto che la Legge Mancino sia una legge liberticida. Credo invece che sia una legge che dà un forte messaggio morale: dice che nella nostra società non c’è spazio né tolleranza per l’odio e per chi lo fomenta. Le parole di odio sono pietre, non sono soltanto parole. Sono uno strumento concreto di offesa. La libertà di parola non ha niente a che vedere con la costruzione di un clima di intolleranza e di paura per persone che non hanno altra colpa se non quella di appartenere a una minoranza impopolare. Così come la legge prevede che la diffamazione o la calunnia siano parole che non possono nascondersi dietro la libertà di parola, così il razzismo e la xenofobia non possono nascondersi dietro la bandiera della libertà. Chi paragona “Je suis Charlie” ai “bastardi islamici”, finge di non sapere che c’è una differenza enorme tra la libertà di satira irriverente, o addirittura sacrilega, e il tentativo di costruire a mezzo stampa una barriera di odio e intolleranza tra un “noi” e un “loro”. Chi paragona Libero a Charlie Hebdo lo fa dunque in perfetta mala fede.
Non è “buonismo”, il mio, e men che meno una forma di particolare simpatia per l’Islam. Mi considero un laico tutto d’un pezzo e non credo in nessun Dio. Non ho in particolare simpatia le religioni in generale, a dire la verità: l’uniformità di pensiero e di azione legata alla volontà attribuita a un qualche essere trascendente non mi convince e in qualche modo addirittura mi inquieta. Ma rispetto profondamente, e qualche volta pure bonariamente invidio, chi vive nel conforto di una fede: alla fine a me tocca restare solo con la mia coscienza e con l’uso di una bussola che mi sono costruito con fatica e non senza qualche dolorosa esperienza e qualche ammaccatura. E tuttavia credo che le religioni abbiano tutto il diritto di predicare cose che non penso e sulle quali sono radicalmente in disaccordo. Alle istituzioni democratiche resta però il dovere di rappresentare alla fine il punto di equilibrio che consenta la pacifica e armonica convivenza tra quelli che credono a religioni diverse e tra questi e quelli che non credono affatto.
Si può avere una sana idiosincrasia per i simboli religiosi e non per questo odiare chi li espone. Come ho avuto occasione di scrivere qui in precedenza, non mi piace il velo integrale e mi parrebbe opportuno che il crocifisso non fosse esposto nei luoghi pubblici, che né la giustizia fosse amministrata né l’insegnamento fosse esercitato sotto un’insegna che rappresenta solo una parte e non la totalità dei cittadini. Non promuovo né mi sento allineato ai precetti del Corano né alla struttura sociale che propone, ma la stessa cosa potrei probabilmente dirla per il Vangelo. Sono gay e so bene che nessuna religione organizzata (tranne forse la piccola ma nobile Chiesa Valdese) nutre alcuna simpatia per me e per la mia famiglia, e dico spesso che non mi sarebbe dato vivere pacificamente come vivo in Italia in nessun paese del Medio Oriente fatta eccezione per Isreale; credo in una società di donne e uomini uguali in dignità e diritti e non mi sfugge che le grandi religioni monoteistiche sono tutte fondamentalmente basate su una struttura rigidamente patriarcale e dunque radicalmente discriminante per le donne.
L’importante è avere chiaro che la nostra Repubblica è laica: vuol dire che deve consentire a tutti di credere e praticare, ma che l’Italia dev’essere la casa di tutti. Cristiani di ogni confessione, ebrei, musulmani, agnostici e atei. Quando questo non succede, quella non è una responsabilità della religione – che fa legittimamente un mestiere che non mi piace, ma che ha tutto il diritto di fare – ma una sconfitta della politica. Proprio per questo da laico e da agnostico sostengo con forza la costruzione di una moschea degna di questo nome a Milano e il diritto di professare la propria fede in luoghi che tengano conto dell’importanza della religione per chi crede. E per gli stessi motivi credo di aver sempre lavorato in politica con chi si definisce cattolico sempre con il massimo del rispetto e con il massimo dell’ascolto (e per questa ragione qualcuno, magari ateo ma con un approccio ugualmente fideistico nel metodo, non ha mancato di accusarmi di intelligenza con il nemico).
In queste ore c’è una grande polemica su un preside che, vicino Milano, ha disposto lo slittamento delle celebrazioni natalizie a una festa di fine inverno da tenersi a gennaio, al fine di non urtare la sensibilità dei non cattolici. Capisco le buone intenzioni: imporre una festa a chi non crede significa mettere le persone di altre confessioni, e vale soprattutto per i bambini, in una situazione di minorità e di esclusione. Vale per chi non è cristiano in Italia, vale per i cristiani in luoghi dove la maggioranza professa altre religioni. E tuttavia, nonostante le buone intenzioni, credo che si possa e si debba provare a essere inclusivi senza correre il rischio di neutralizzare la cultura e l’identità di un Paese, per di più di un Paese con un’identità forte come la nostra. Il rischio, altrimenti, è di cadere in un integralismo non meno dannoso di quello religioso.
Quando lavoravo a Londra, un vero melting pot di culture e religioni e santuario peraltro della massima correttezza politica, nell’atrio del grattacielo della banca dove lavoravano con me alcune migliaia di persone, si faceva pur sempre un grande albero di Natale: simbolo religioso per chi crede, simbolo di una radicata tradizione per chi non crede. Credo quell’albero fosse gradito a tutti come simbolo di una festa che non escludeva nessuno. La gente si augurava una “Happy holiday season” invece di “Merry Christmas” e in questo ci si ritrovava tutti insieme in un tripudio di bigliettini, pacchetti e affettuosità diffusa. Che era poi l’obiettivo di chi doveva gestire la serena convivenza di quella massa variopinta e multicolore di gente con veli e minigonne, turbanti e completi gessati.
Il fatto è che sparando su Valeria Solesin si sperava che papà e mamma Solesin, e tutti noi con loro, invocassero la vendetta sull’esercito del nemico, l’Islam, e sui suoi agenti, anche quelli incolpevoli e inconsapevoli: perché “se non è vero che tutti gli islamici sono terroristi, è pur vero che tutti i terroristi sono islamici” (Andres Breivik a parte, naturalmente). Gli attacchi perpetrarti nel nome dell’Islam hanno sempre l’intenzione di essere l’atto uno di una faida, di quelle che ci si spara per generazioni fino a che tutti hanno dimenticato chi ha iniziato per primo. E chi ci casca oggettivamente persegue le stesse finalità di quelli che sparano.
Ha ragione Renzi quando dice che i terroristi sanno bene di non poter ammazzarci tutti, e che quindi il loro vero obiettivo non è farci morire, ma farci vivere come dicono loro. E, aggiungo, costringerci a una scelta di campo, a un arruolamento tra schieramenti contrapposti. Senza possibilità di mescolarsi, in un mondo di razze pure e di regole da rispettare per segnalare la propria appartenenza a uno degli schieramenti in lotta. Una prospettiva che piace agli jihadisti, ma che farebbe comodo a molte delle estreme destre del mondo occidentale per perseguire le loro politiche di purezza etnica e contrastare l’integrazione. A chi fa paura lo ius soli, e perché?
Le armi più potenti che abbiamo sono invece proprio i tratti caratteristici delle nostre società occidentali, a partire dai diritti individuali di ciascuno: per questo ho ascoltato con preoccupazione le parole del presidente Hollande circa la compressione dei diritti individuali in nome della sicurezza: rischia così di partire un circolo vizioso di cui potremmo non saper controllare gli effetti. E invece quello che si vorrebbe far venire meno e che dobbiamo difendere a tutti i costi sono proprio la democrazia, l’integrazione, l’intelligenza, l’apertura, il dialogo, la libertà (di fare e anche di non fare), la parità, l’inclusione, lo stare insieme, l’arte, la musica, il divertimento. Il riso.
“Il riso uccide la paura e senza la paura non può esserci la fede”, dice il vecchio monaco Jorge da Burgos, tradizionalista e simbolicamente cieco, all’arguto Guglielmo di Baskerville (che invece possiede addirittura degli occhiali: “oculi de vitro cum capsula”!) ne “Il nome della rosa”. Questo è esattamente il punto: il vecchio monaco nato dalla penna di Umberto Eco dice tutto nella maniera più semplice e chiara possibile. Credo che il sedicente Califfo Al Baghdadi sarebbe completamente d’accordo con lui.