Le parole più dolorose del linguaggio
Lo confesso: per qualche giorno ho pensato di essere veramente un ingenuo. Sapete com’è: per due anni ho fatto il sottosegretario alle Riforme, e come componente della squadra di Maria Elena Boschi ho partecipato a decine o centinaia di incontri, riunioni e discussioni dedicate alla Riforma Costituzionale. Ho ascoltato pareri meditati ed autorevoli, uscite estemporanee e talora persino comiche. Qualche volta le ragioni di chi parlava, emendava, correggeva, mi hanno convinto, a volte no. Qualche volta gli argomenti con cui difendevo un certo aspetto del provvedimento sono risultate convincenti, a volte no.
È stato difficile trovare la quadra sul merito, e ancora più difficile preservare ciò che si era faticosamente condiviso dalle tempeste della politica, con le sue svolte tattiche e i suoi colpi di testa. È stato difficile e faticoso, ed è quindi stato tanto più soddisfacente arrivare in fondo al complicato percorso giustamente previsto per le riforme costituzionali (sul quale gli elettori diranno di qui a qualche mese l’ultima parola).
Ho pensato di essere un ingenuo perché – a quanto pare – tutta questa fatica la si sarebbe potuta risparmiare, citofonando a Massimo D’Alema. L’ex-premier ha infatti spiegato in una intervista che, appena bocciata questa riforma (come egli auspica), ce n’è subito pronta una nuova di trinca, “di soli tre articoli”, che il Parlamento approverebbe illico et immediate a maggioranza qualificata, eliminando l’incognita referendaria. Mannaggia, perché non ci abbiamo pensato?
La “riforma D’Alema” è in effetti stringata assai: si tagliano un tot di deputati e un tot di senatori, si decide che il Senato non dà la fiducia al Governo; da ultimo si prevede che le eventuali difficoltà delle leggi nel passaggio da una Camera all’altra (aggravato dal fatto che al Senato sarebbe ovviamente improponibile la questione di fiducia) sarebbero affrontate e risolte da un “Comitato di conciliazione”. Un comitato con quali poteri? Composto da chi? Si vedrà.
È chiaro che con tre articoli è difficile fare tutto: per esempio non si pone rimedio al disastro della riforma del Titolo V del 2001 (lo si può capire, essendone stato D’Alema uno dei promotori), non si elimina l’inutile Cnel e così via, ma si sa, de minimis non curat praetor. Immaginavo come i superciliosi costituzionalisti del No avrebbero fatto a pezzi una proposta così inattendibile e fumosa: attendevo i fulmini di Zagrebelsky, i sarcasmi di Ainis, le rampogne di Onida, i lai di Alessandro Pace. Ed invece, nulla di tutto ciò. La riforma di Fatima (tre articoli come i tre celebri segreti mariani) non ha destato perplessità alcuna, non si è guadagnata nemmeno un’articolessa di Stefano Rodotà o di Piero Ignazi. Vi lascio immaginare il mio crescente sconcerto.
Poi mi sono ricordato che D’Alema si è occupato a lungo di Costituzione, come presidente della Bicamerale. Allora, essendo più prolisso, aveva proposto qualche articolo in più. Non si proponeva di riformare la Costituzione, come in tutta modestia abbiamo fatto noi, ma di scriverne un’altra, rovesciando dalle fondamenta quella del 1948 e trasformandoci in una Repubblica sempresidenziale. E, malgrado non fosse nemmeno alle viste quel pravo abusivo di Matteo Renzi e la Ditta fosse pienamente in charge, non riuscì a portare a casa la sua proposta.
Così mi è venuta in mente una celeberrima canzone di Fabrizio de André, Bocca di rosa. Essa contiene l’esemplare aforisma secondo cui la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivi esempi. Non mi addentro in arditi paralleli fra Massimo D’Alema e la vecchia zitella illividita che nella canzone aizza le mogli di Sant’Ilario. Dico solo che Massimo D’Alema ha avuto, e per lungo tempo, la sua opportunità di cambiare la nostra Costituzione in senso (a suo giudizio) migliorativo. Lui e la classe dirigente di cui era parte non ci sono riusciti.
È umano il desiderio di ribellarsi al precipite gorgo del tempo e capisco lo strazio interiore di D’Alema. Come dice magistralmente Jonathan Coe ne “I terribili segreti di Maxwell Sim”: avremmo voluto, avremmo dovuto e avremmo potuto sono “le parole più dolorose del linguaggio”. E tuttavia è triste provare rancore per chi soltanto si limita a cogliere quelle occasioni (e a esercitare quelle responsabilità) che si sono buttate via malamente quando era il proprio momento.
Lasciamo che i cittadini Italiani dicano Sì (come auspico io) o No (come auspica lui) ad un onesto progetto di riforma vera. Quelle immaginarie del dopo lasciamole al dimenticatoio che finalmente meritano.