Prendo a prestito un vecchio tormentone per commentare il sondaggio di Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera di qualche giorno fa, secondo il quale il Movimento Cinque Stelle avrebbe largamente sopravvanzato il Partito Democratico nelle intenzioni di voto degli italiani.
La serietà dell’indagine, considerata la reputazione di Pagnoncelli, è fuori discussione; cosa diversa è ritenere che, in caso di elezioni, le cose andrebbero proprio così. Il lavoro della politica, comunque, non è quello di seguire i sondaggi, bensì, come ripete spesso Matteo Renzi, di cambiarli. Cosa senza dubbio possibile e – aggiungo – doverosa, perché ritengo che il nostro Paese subirebbe, nel caso di una vittoria del Movimento 5 Stelle, un danno irreparabile.
È difficile, leggendo questi numeri, non ricordare la discussione sulle elezioni politiche anticipate che io ed altri ritenevamo necessarie dopo la bocciatura del referendum costituzionale, e che invece venivano ritenute pericolose da altri proprio per il “rischio populista”. Ma quella discussione, in cui le ragioni della prosecuzione della legislatura avevano anche altre e ben più fondate motivazioni, è chiusa. Piuttosto, il sondaggio fa giustizia della pia illusione che ha accompagnato la scissione interna al Pd. Non solo perché i numeri ne confermano la tenuità e l’irrilevanza, ma soprattutto perché smentisce uno delle pochissime intenzioni di senso che proclamava.
Un soggetto politico con caratteristiche più marcatamente di sinistra – ci era stato detto – sarebbe stato il grimaldello per far saltare il meccanismo con il quale il Movimento di Grillo (non quello a cui appartiene Grillo, ma quello che appartiene a lui) pesca consensi in tutto l’arco dello schieramento politico. Pagnoncelli rileva invece impietosamente come la somma dei voti stimati fra Pd e Mdp sia esattamente identica a quella che il solo Pd riscuoteva prima della scissione. Un’operazione a somma zero, che non sposta un consenso che è uno, buona tutt’al più a salvaguardare le esigenze di sopravvivenza di un pezzo di ceto politico. Obiettivo legittimo, ma per il quale risultano francamente un po’ sproporzionati i toni e gli argomenti che riecheggiano nei demoprogressisti.
D’altronde non si comprende perché l’elettore dei Cinque Stelle dovrebbe preferire una sbiadita e confusa copia all’originale. Se le imbarazzanti (per lui e per la sua storia) dichiarazioni di Pierluigi Bersani traboccano di complice interesse, quando non di fervente ammirazione, per ciò che i Cinque Stelle si propongono o rappresentano, se persino nostri esponenti come Michele Emiliano sottolineano una comunità di intenti ed un idem sentire con lo sgangherato esercito della Casaleggio & Associati, come meravigliarsi se i loro elettori non modificano, ed anzi rafforzano la propria adesione?
Il punto non è liquidare o esorcizzare Grillo e i suoi, che pure hanno un profilo antidemocratico ed eversivo con cui è pericoloso scherzare. Il punto è che, anche quando colgono problemi e criticità reali, i Cinquestelle danno ad essi risposte profondamente, radicalmente e tragicamente sbagliate. Quelli che li sostengono con più convinzione sarebbero i primi ad essere danneggiati se la loro proposta avesse successo.
Non abbiamo bisogno di reggicoda dei pentastellati, e dubito che ne abbiano bisogno loro. Non ci servono populisti di buone letture o eversori di buona creanza. Ci serve una rigorosa battaglia contro la loro egemonia culturale, quella di cui parlava Angelo Panebianco sempre sul Corriere. Una battaglia di alternativa e di proposta, che prosegua e migliori quella stagione del riformismo che si vorrebbe strozzare in culla.