10 Aprile 2007

L'autismo della politica italiana – Giuseppe A. Veltri

Cervelli in fuga, Democrazia

Alcuni mesi fa, sono stato invitato insieme ad altri ricercatori della London School of Economics dal Labour Party a tenere dei workshops di ricerca sociale dinanzi ad una platea molto diversificata che conteneva dal navigato dirigente al giovane militante locale. L’intenzione del gruppo dirigente del partito che ha commissionato tale corso era quella di fornire ai propri dirigenti e militanti una idea chiara sui quali fossero i metodi di ricerca sociale e loro precauzioni d’uso adottati negli ambienti accademici più seri e, allo stesso tempo, fornire una panoramica dei risultati ottenuti dalle ricerche recentemente condotte su alcuni temi di pubblico interesse e non. Si e’ spaziato dalla percezione pubblica dei ‘civil servants’ ai quella degli ‘homeless’, dalla percezione pubblica della conoscenza scientifica a metodi per ridurre la corruzione nel pubblico impiego fondati su principi e dinamiche socio-psicologiche. Vi era un vasto ed interessante repertorio di conoscenza ed ispirazione che nell’idea dei committenti fornirà idee e preziosi suggerimenti ai militanti del proprio partito.


Il partito conservatore guidato da David Cameron si appresta a tenere un evento simile tra qualche settimana, ma gli esempi sono molteplici, dalle ricerche sulla corruzione commissionate dal presidente brasiliano Lula al virtuoso rapporto tra politica e scienze sociali nelle democrazie scandinave.
La ragione di questa premessa e’ quella di illustrare come, in molte democrazie, il rapporto tra la politica e le scienze sociali venga considerato come cruciale e fondamentale per innescare un circolo virtuoso di reciproca contaminazione: la politica può beneficiare delle informazioni e della conoscenza che le scienze sociali possono fornire al dibattito politico, le scienze sociali possono mantenere un rapporto più solido con la realtà di ogni giorno occupandosi di temi che sono al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica ed essere incentivata a fare ricerca attraverso un serio finanziamento pubblico. Un rapporto sano tra politica e scienze sociali permette di elevare la qualità della discussione politica e, soprattutto, spinge la politica ad organizzare i suoi discorsi e i suoi confronti non solo sulla base di un terreno maggiormente solido rispetto al paludoso ed precario dominio delle opinioni.
Nelle democrazie anglosassoni e del Nord Europa, la discussione politica ruota intorno ad una tensione ben precisa: quella tra la ‘vision’ e gli ‘hard facts’. L’interazione tra queste due estremità garantisce che le visioni politiche non siano completamente frutto di pensiero ideologico o di wishful thinking, che abbiano il supporto di una qualche validità scientifica o riconoscano i risultati messi in luce dalla ricerca integrandoli al loro interno. In modo complementare, gli ‘hard facts’ non sono sufficienti a delineare orizzonti politici o fissare degli obiettivi, non possono mobilitare passioni e stimolare speranze: la politica non può e non deve essere una mera esecuzione della conoscenza scientifica, sia naturale che sociale.
Il rapporto tra visione politica e veridicità scientifica non sussiste soltanto nel palese caso del rapporto tra politica e scienze naturali, come l’esempio del riscaldamento globale del nostro pianeta ha recentemente illustrato nel spesso conflittuale rapporto tra le scienze naturali e la politica. La tensione tra ‘vision’ e ‘hard fact’ sussiste ancora di più nel caso delle scienze sociali che direttamente si occupano di temi e soggetti che sono o dovrebbero essere di interesse della politica. Nel caso delle scienze sociali, a parte il caso dell’economia che gode di un status privilegiato non giustificato, come scrisse un noto psicologo sociale “their discoveries – unlike those of cosmologists – are as yet scarcely known to the general public” (le loro scoperte – a differenza di quelle dei cosmologi – sono ancora largamente sconosciute dall’opinione pubblica).
In un quadro politico sano, un politico utilizza la conoscenza e gli strumenti delle scienze sociali per affinare e migliorare le sue politiche sociali, economiche e culturali. La prova del nove di una nuova policy e’ quella di essere scrutinata da vari istituti di ricerca o università che nel modo più indipendentemente possibile ne valutano l’impatto ed i risultati. Partendo da questi risultati la discussione politica interviene per sospendere o migliorare il proprio strumento di intervento. Quando questa dinamica viene a mancare, quando la tensione tra la ‘vision’ e gli ‘hard facts’ non esiste, allora si corre il serio rischio di cadere in un continuo degrado del quadro politico, della sua capacita’ e qualità d’azione. Il populismo ne e’ un esempio tipico e la politica diventa un enorme calderone dove prevale chi grida più forte o più spesso rispetto a chi presenta i migliori argomenti visto che tutto si basa solo su opinioni soggettive.
Il caso italiano e’ particolarmente indicato come illustrazione di un esempio al negativo: da un lato vi e’ una mancanza del ceto politico di esprimere ‘visions’ che siano il frutto di un dialogo aperto con la realtà sociale e con le scienze sociali; dall’altro lo stato delle scienze sociali e’ piuttosto misero essendo finanziate in modo ridicolo ed essendo afflitte dai perenni mali del sistema universitario italiano che non premia ed incentiva chi fa ricerca ma solo chi vive di rendite di posizione. L’immaturità di un sistema democratico e di una realtà politica può essere rappresentata anche da questo mancato dialogo, da questa forma di autismo della politica che la rende semplicistica e pervasa da tendenze solipsiste.
L’Italia, rispetto ad altre democrazie europee, vive in uno stato di profonda arretratezza non solo della politica ma della società in generale nel suo rapporto con le scienze sociali rispetto ad altre nazioni europee. Soltanto la loro versione trivializzata raggiunge l’onere di mass media, spesso su temi di nessun reale rilevanza sociale. Naturalmente, anche la preoccupante presenza di pessima ricerca ed i pessimi ricercatori sociali che giungono a conclusioni perentorie con pochi dati aiutano a rinforzare il banale ed naive mantra del ‘tanto, tutto e’ relativo’ che viene attaccato ad ogni novità’ proveniente dalla scienze sociali. Se a questo si aggiunge la piaga italiana dell’enorme proliferazione di opinionisti e tuttologi che intasano i mass media e gli altri spazi pubblici, il quadro che ne risulta non e’ particolarmente incoraggiante. Una politica degna di una democrazia del ventunesimo secolo ed erede della cultura secolare e scientifica del mondo occidentale non può sussistere senza un fertile dialogo con le scienze sociali, quando questo dialogo cessa di essere allora la politica rimane vittima del suo autismo ed a soffrirne e’ la società nel suo complesso.