Quasi in fondo al corridoio, su una delle porte blindate color celeste c’è scritto “redazione”. E ci lavorano dieci persone, nell’unica redazione al mondo senza telefoni, senza internet, senza agenzie di stampa, senza cellulari, e con una mazzetta di appena cinque giornali comprati da altri alla stazione. Ma è anche l’unica redazione al mondo dentro una prigione.
E i giornalisti sono carcerati, il tecnico e il regista sono carcerati, gli speaker sono carcerati. Insieme, fanno un telegiornale.
La casa di reclusione “La Felicina” di Saluzzo è in una spianata sotto le montagne, blocco grigio fuori dalla città. Si fa teatro, ci sono i laboratori, non si dimentica che chi sta dentro è prima di tutto una uomo. Ci vivono 380 detenuti. L’idea del tg è venuta a un gruppetto di persone con parecchi anni da scontare e molte cose da dire. Eccoli, attorno all’unica scrivania davanti al tavolo lungo dove sono appoggiati un computer, due monitor, il masterizzatore e un microfono.
“Il Comune ci ha dato 1.506 euro per l’attrezzatura”, racconta Pancrazio Chiruzzi, 54 anni, uno dei due “capi struttura” per dirla giornalisticamente (ma tra loro non esistono gerarchie), così come Stefano Diamante, 31 anni e una disinvoltura al microfono da fare invidia a molti veri mezzibusti. Tre colleghi (Giancarlo Bonetto, Antonio Di Gennaro e Stefano Diamante) si occupano della rassegna stampa, mentre Salvatore Pititto è il redattore sportivo. Autodidatti assoluti. Due detenuti marocchini, Abdellatif El Baroudi e Khalid Ben Haddi, leggono la rassegna stampa in arabo e altri due, Arben Shala e Klodian Kukaj, fanno la stessa cosa in albanese.
Il cameraman si chiama Morgan Boccedi, del montaggio e della grafica si occupa Salvatore Allard. Li coordina l’agente Antonio Santillo, “assistente capo” (la sua carica nel carcere, non nel tg, anche se è una dicitura intercambiabile): “Massimo rispetto dei ruoli, io sono la guardia, loro i detenuti, però io ho lavorato in alcune tv private e conosco il mestiere. I ragazzi mi seguono, sono umili, vogliono imparare. Io gli ripeto di pensare più al senso delle cose che alla qualità, eppure anche quella non manca”.
Il tg della prigione, che si chiama “Rassegna in…” sulla falsariga della testata del giornale interno “Parole in libertà”, viene trasmesso a circuito chiuso in tutte le celle alle 15 e 30 e dura mezz’ora. Prima si riassumono le notizie dei giornali, poi vanno in onda servizi sulla vita del carcere, aggiornamenti di legge, curiosità, informazioni di servizio con l’aiuto del sito internet del carcere di Padova (www.ristretti.it) e la mediazione degli educatori, cioè gli assistenti dei carcerati. “Sono loro a portarci i giornali, perché quelli in abbonamento arrivano troppo tardi, verso le tredici e neanche tutti i giorni. Poi i dischetti e altro materiale”.
Come e più che per i giornalisti veri, il nemico è la fretta. “Possiamo restare in redazione solo in orari rigidi”, spiega Pancrazio Chiruzzi. “Dalle 9 alle 11 la mattina, dalle 13 alle 16 il pomeriggio, rinunciando ovviamente alle ore d’aria. Con gli strumenti che possediamo, i tempi di montaggio sono piuttosto lunghi. Eppure siamo soddisfatti, riusciamo un po’ a rompere l’isolamento terribile della prigione. E poi diffondiamo notizie. Lo sapevate che nel carcere di Orvieto si produce dell’ottimo vino? O che su 61mila detenuti attualmente in carcere in Italia, circa 16mila hanno problemi psichici?”.
Come dovrebbe essere in ogni redazione, la notizia è sovrana, e la libertà editoriale quasi assoluta. “Finora non c’è stato il minimo problema – spiega la direttrice Marta Costantino, 35 anni, la più giovane d’Italia – e ci siamo detti che è bene fidarsi. L’iniziativa è partita da loro, e mi sembra una cosa molto importante”.
L’idea è quella di passare dal tg a una programmazione vera e propria nell’arco della giornata, con un palinsesto e trasmissioni regolari. “Abbiamo chiesto cassette e dvd alla biblioteca di Saluzzo”, dice Chiruzzi. “Il nostro sogno sarebbe l’abbonamento a Sky, per poter registrare e selezionare programmi, penso a documentari e a film d’autore, mentre oggi i detenuti si rimbambiscono di reality”.
Dunque servirebbero Sky ma anche il notiziario dell’Ansa, e cartucce d’inchiostro per la stampante e magari una telecamera un po’ più moderna, o un computer più potente. “Purtroppo, il carcere non ha un centesimo e dobbiamo chiedere aiuti all’esterno, oppure autotassarci”, interviene Salvatore Allard, il grafico: “I faretti li abbiamo comprati noi, e anche lo sfondo dello studio, quello con l’occhio gigante, lì dietro. Invece le tendine per oscurare le finestre le ha cucite il mio compagno di cella che è un sarto”.
Arrangiarsi, curiosando nella vita degli altri e nella propria. Progettare, e raccontarsi. Il giornalismo, ecco. Usare le parole per essere meno soli. “Sarebbe stato bello fare questo mestiere, prima, fuori di qui”.
(Fonte: Repubblica.it, 3 gennaio 2006)