5 Gennaio 2006

Storia della strage (mancata) di Trento

Diritti

“Su una cosa il ministro Scajola ha ragione: l’Italia ha bisogno di diversificare le sue strategie per l’approvvigionamento di energia, ma resta perdente la scelta del nucleare”. Ne è sicuro, Roberto Della Seta, presidente di Legambiente, commentando la proposta di Scajola di aprire un tavolo bipartisan sull’energia che rilanci l’impiego del nucleare.
Quello che il governo sembra non realizzare – spiega Della Seta – è che i costi di produzione di energia da fonti nucleari non sono competitivi, i problemi di smaltimento delle scorie radioattive e di “decommisioning” delle centrali nucleari sono ancora irrisolti e taciuti come voce nei costi da considerare. È forse per questo che il contributo dell’atomo alla generazione elettrica mondiale, – aggiunge il presidente nazionale di Legambiente – pari al 16% (6% in termini di energia primaria), è al palo da parecchi anni ed è ormai ridotto a un tasso trascurabile rispetto a quello oggi registrato dalle energie pulite: nel 2001 la potenza nucleare è cresciuta di 1750 MW mentre quella eolica è arrivata a 6500 MW, negli ultimi cinque anni dunque, è cresciuta a un ritmo medio del 36%”.
(Fonte: Legambiente, 3 gennaio 2006)
Alle ragioni sollevate da Legambiente, ne aggiungerei una non meno importante: l’incapacità tutta italiana di porre freno allo sviluppo industriale in settori strategici quando esso comporta gravi e comprovati rischi per l’ambiente e la popolazione. Voglio raccontare qui, per chi non la conoscesse, la storia vera ed esemplare di una strage mancata. Quando sentite nominare la parola “Trento” a cosa pensate? Forse al Concilio antiprotestante del 1545, o a una tranquilla cittadina ai piedi delle montagne, tra le più belle d’Italia. Certo non associate questo nome a quelli di Seveso, o, più opportunamente, di Bhopal. Il 14 luglio 1978 Trento è stata a un passo dall’essere luogo della peggiore catastrofe ambientale della storia d’Italia. E dall’essere annientata. E’ una storia di omertà e immobilismo dei governanti di fronte a una lobby dai grandi interessi ben tutelati. Una tipica storia italiana. La storia della SLOI. La SLOI nel 1940 è una fabbrica strategica per l’aviazione dell’Asse italo-tedesco: è l’unica in tutta Europa a produrre il piombo tetraetile, un antidetonante da aggiungere alla benzina degli aerei da guerra. La collocazione a Trento è resa necessaria dalla vicinanza alla Germania, alla ferrovia del Brennero. La fabbrica è intoccabile: i suoi dipendenti sono esentati dal servizio militare. Nei terreni che non sono stati espropriati i fumi che escono dalla fabbrica e sanno di mandorle dolci bruciano gli alberi da frutto e uccidono i bachi da seta. Danneggiata dai bombardamenti nel 1943, la SLOI riprende la produzione nel 1947. Si cominciano a costruire le autostrade e la fabbrica ora ha un nuovo obiettivo strategico: lo sviluppo della civiltà dell’automobile. Turni di sei ore, salario doppio, mensa abbondante e un litro di latte tutti i giorni per disintossicarsi rendono la SLOI un posto di lavoro appetibile, a cui si giunge per raccomandazioni. E compensano la durezza estrema del lavoro, gli svantaggi dell’intossicazione. Il piombo tetraetile è estremamente volatile: si assorbe per via cutanea e respiratoria, accumulandosi nelle ossa, nel fegato, ma soprattutto nel cervello. L’intossicazione comincia con perdita di memoria, allucinazioni, depressione, attacchi di violenza e si conclude con la bradicardia, l’ipotermia e la morte. La concentrazione di piombo nella fabbrica è tale che persino il cuoco della mensa è intossicato e il padrone della fabbrica sviene mentre sta visitando il reparto di produzione. Il destino degli operai è il manicomio di Pergine. Mia nonna ricorderà sempre un amico di famiglia, operaio alla SLOI. Quando veniva a trovarli guardava nel vuoto per ore, lamentandosi del pavimento, a suo dire “cosparso di buchi e crateri”. Finirà anche lui i suoi giorni in manicomio. Dal 1960 al 1971 ci sono 1108 casi di infortuni, in una fabbrica che impiega centocinquanta operai. Finché un giovane medico del lavoro, giunto da Bari per sostituire il medico di fabbrica precedente non si dimette dopo nove mesi, denunciando l’impossibilità di tutelare la salute degli operai. Scoppia uno scandalo. Il giudice istruttore ordina una perizia tecnica di 244 pagine da cui risulta in modo inequivocabile che la fabbrica va chiusa. Si apportano alcuni miglioramenti e la SLOI riapre per un periodo di prova destinato a non finire. Nel 1975 inizia il processo contro i dirigenti della fabbrica. Una vedova testimonierà: “A 29 anni sono rimasta sola con due bambini. Mio marito fu preso da un tremito e ricoverato all’ospedale di Pergine. So che mio marito è morto avvelenato dal piombo. Mi aveva detto dei pericoli che correva lavorando alla SLOI; aveva tentato di farsi dare dei compiti meno pericolosi, ma lo avevano minacciato di licenziamento. Era andato in fabbrica per lavorare, non per essere ucciso. Non credo che il padrone abbia il diritto di uccidere gli operai. La vita di un uomo non ha prezzo.” Ma la produzione continua: il mercato dell’automobile ha fame di piombo, come opporsi al progresso? Il 14 luglio del 1978 un acquazzone spazza Trento. Il deposito di sodio della SLOI ha i vetri rotti e alcuni bidoni sono forati. L’acqua entra, il sodio si incendia ed esplode causando una reazione a catena. Una nube di soda caustica, tossica ma non mortale, avvolge la città. Chi può, e sa, scappa. Perché le fiamme sono pericolosamente vicine ai depositi di piombo tetraetile, che, surriscaldato, può vaporizzare immediatamente e produrre una nube tossica trenta volte più dell’iprite capace di sterminare centomila persone, l’intera popolazione di Trento. Tra la città e il disastro annunciato si frappone solo la prontezza di riflessi del capo dei vigili del fuoco. L’acqua non si può usare, la sabbia non fa effetto, ma ecco l’idea geniale: a Trento c’è la Italcementi. Si recuperano autotreni e quaranta tonnellate di cemento sfuso vengono gettate sulle fiamme: un sarcofago che spegne il fuoco e sigilla per sempre la fabbrica con i suoi veleni. Quattro giorni dopo il sindaco ha un tardivo sussulto di dignità e ordina la chiusura definitiva della fabbrica. I resti della SLOI sono ancora lì: ora ci dormono senza casa ed extracomunitari. Sotto, nel terreno, ci sono a tutt’oggi 180 tonnellate di piombo tetraetile, che uno strato di argilla impermeabile separa dalla falda acquifera dell’Adige. Non si è ancora trovato il modo di bonificare l’area senza avvelenare la popolazione.
Ho ricavato le informazioni per questa storia dai ricordi della mia famiglia e dal monologo teatrale di Andrea Brunello e Michela Marelli “SLOI Machine”. Se capiterà nella vostra città, andatelo a vedere. Inutile la conclusione retorica: perché non debba più accadere. Finché la cultura politica dei nostri governanti non avrà subito una trasformazione radicale, e i governanti stessi un avvicendamento radicale, nessun luogo d’Italia, né l’isolata Val di Susa né la ricca Trento possono dirsi al sicuro.
Gabriella Stanchina