11 Gennaio 2006

I blog censurati e la realtà della guerra

Attualità

I blog raccontano la guerra, se la censura lo permette. Da Bagdad sono ormai una buona fonte di informazione i diari online degli studenti iracheni: ma i soldati americani rischiano di non poterlo fare più. Il Pentagono ha infatti dichiarato guerra ai milblogs, con una motivazione secca: anche il nemico può leggerli. E che la guerra telematica sia in corso, lo sa anche Bush, che ritiene legittima l’intercettazione di mail e telefonate: “Se Al Qaeda chiama un numero negli Usa, voglio sapere il perché”.
Ora la censura arriva sui blog dei soldati. “Non interessano solo quattro amici in patria” sostengono le autorità “ma anche i ribelli”. E’ c’è chi protesta, come Jason Hartley, che proprio a causa di un diario è stato degradato e multato un anno fa. “Per uno che ne apre, ne viene chiuso subito un altro”.
Ecco i controllori. Esercito, Marina e Air Force chiedono ora una registrazione al soldato che apre un diario. E squadre “speciali” leggono tutti i contenuti. Ma questa forma di censura nulla può contro le informazioni che i soldati scambiano con amici e media in patria, senza pubblicarle. “L’esercito spreca il suo tempo” spiega il giornalista specializzato Seymour Hersh.
Il macabro precedente. Non sempre i militari Usa hanno usato il blog per fare informazione “alternativa”. Alcuni soldati ottennero sei mesi fa l’accesso a siti porno offrendo in cambio foto di cadaveri, magari con didascalie del tipo: “L’unico iracheno buono è quello morto”.
I messaggi sul Boston Globe. Il quotidiano ha ottenuto il permesso di pubblicare le e-mail di 25 soldati del New England che hanno perso la vita. “Sono messaggi di sangue, rabbia, paura e angoscia” sostiene il giornale. Anche questi, difficili da censurare.
(Fonte: Repubblica.it, 2 gennaio 2006)
Prima, durante le due guerre mondiali, ci furono i canti di guerra. Scritti e musicati dagli stessi soldati al fronte, sono un patrimonio storico che molti archivi musicali operano per preservare. Raccontano della guerra vista dal di dentro, mescolano frammenti di propaganda con l’ingenua e struggente consapevolezza di un popolo mandato a morire per strategie macropolitiche che non solo lo superavano, ma erano radicalmente estranee all’umile e feriale prospettiva degli individui, centrata sul quotidiano di un’Italia ancora spesso immobile e rurale. Sono due dimensioni che si confrontano: una concretissima e viscerale, immutata da generazioni e lacerata dall’inserzione dell’altra, quella politica che parla il linguaggio astratto della strategia. La guerra è allora come una scheggia di astrazione, incomprensibile e irrecuperabile, conficcata nella carne viva. Ciò che resta al soldato trasformato in numero, bandierina, unità combattente, è narrare lo strazio del congedo dalle persone amate, la perdita dei compagni, la consapevolezza lancinante dell’imminenza della morte. Non c’è in quei canti aperta ribellione ne’ il germe di una strutturata opposizione politica: ma c’è qualcosa di ancor più devastante: il nudo stupore di fronte a un orrore incommensurabile, la fatica e il travaglio, la tristezza dell’animale condotto al macello, la muta insensatezza dello sforzo bellico. Tanto bastò a far sì che molte di queste canzoni venissero censurate dai generali, nel timore che esse abbattessero il morale delle truppe e diffondessero “idee disfattiste”. Disfattismo che era adamantino realismo, poiché la guerra stava precipitando il paese nell’abisso della sconfitta e questa sconfitta i soldati la sentivano sulla pelle nuda, nella conta dei corpi martoriati, nelle stremanti marce di ritirata, una rivalsa minuta ma implacabile come uno stillicidio della realtà sul vacuo linguaggio della propaganda.
La guerra in Iraq era stata concepita da Bush principalmente come una guerra mediatica: dai giornalisti “embedded”, cooptati tra le truppe nell’intento di trasformare stampa e televisione in un veicolo neutro di trasmissione dei bollettini emanati dalle autorità militari, fino allo stravolgimento semantico di termini come “giustizia”, “pacificazione”, “civiltà”, “target”. Una vera e propria orwelliana “neolingua” il cui fine era di rendere l’azione bellica tautologica e autoevidente e di escludere le voci degli oppositori dal campo stesso della dialettica e del senso. Il nemico che Bush teme ogni giorno di più e che potrebbe captare le informazioni contenute nei blog censurati non è certo Al Qaeda: è improbabile che dei soldati “usi a obbedir tacendo”, conoscano informazioni ad alto contenuto strategico. Il nemico sono le mogli, i mariti, i partner, i genitori, gli amici che dall’America leggono quei blog, li segnalano, li copiano e diffondono, magari senza alcuna intenzione critica. E’ il temuto “fronte interno” che costò la sconfitta in Vietnam e su cui si rovesciano, come una pioggia minuta e permeante questi frammenti di diario che parlano di sangue, di morte, di stupri, della vile e meschina macelleria della guerra. Di ciò che è irriducibile al linguaggio dell’astrazione. Dell’osceno e dell’indicibile, in un paese in cui perfino MTV censurò tutte le canzoni che contenevano, anche in modo metaforico, le parole “bomba”, “guerra”, “attacco”. E quei blog che senza volerlo riconducono il paese alla realtà della morte e della distruzione sono oggi infinitamente più sovversivi di “Sex Bomb”.
Gabriella Stanchina