Ai primi dell’anno, per fare gli auguri all’Italia è approdata al Senato una legge voluta dalla destra e firmata dal senatore di Alleanza nazionale Riccardo Pedrizzi che equipara partigiani e repubblichini, perché considerati «militari belligeranti». Per ora quella proposta è stata bocciata, ma questo fatto positivo non cambia la gravità del disegno. Naturalmente sarebbero stati compresi nell’equiparazione anche i sopravvissuti delle famigerate bande Koch e Carità, e altre bandette assassine e torturatrici che davano una mano ai nazisti nei loro eccidi al di sotto della linea gotica. Dalla sinistra ferita, specie molti esponenti Ds, si sono levate esclamazioni di indignazione. L’Italia è un paese privo di coerenza politica, visto che questa legge non è altro che la logica conclusione di un percorso iniziato qualche anno fa proprio da un esponente Ds, l’onorevole Luciano Violante. A lui si deve, in un incontro con l’onorevole Fini il conio del gentile sintagma «ragazzi di Salò» per denominare i militi repubblichini. Se si abbassa l’età, le responsabilità diminuiscono, e poco importa se molti dei saloini, soprattutto i caporioni, erano vecchi fascisti incarogniti come il maresciallo Graziani.
Inoltre la parola «ragazzi» è portatrice di tenerezza e di affetto: si dice dei calciatori della nazionale, dei militari italiani in Iraq al seguito di Bush.Con questo lessico che richiama sempre alla mente la mamma e che ha qualcosa di giocoso (perché i ragazzi giocano, anche «I ragazzi della via Paal» facevano la guerra fra di loro, ma era una guerra per gioco) l’Italia ha giocato tanto nel secolo scorso. Pensate, «i nostri ragazzi» andarono in Libia, in Abissinia, in Albania, tentarono di spezzare le reni alla Grecia sul bagnasciuga, e altre missioni di questo tipo. Eventualmente in Abissinia e in Libia fu lanciato qualche gas asfissiante, fu bombardata Tripoli, furono usati i lanciafiamme nei villaggi con capanne di paglia, ma questo faceva parte del gioco. E poi erano ragazzi. Insomma per il suo irrefrenabile spirito giovanilistico che tutto il mondo ci invidia l’Italia non ha da chiedere scusa a nessuno, e infatti non l’ha mai fatto. E dunque non deve chiedere scusa neanche a quella parte dell’Italia che i repubblichini, a fianco dei nazisti invasori, deturparono con eccidi osceni. Anche perché, le torture, i rastrellamenti, i massacri, le complicità con le Ss venivano da un profondo ideale che i «ragazzi» nutrivano, e un ideale, si sa è pur sempre un ideale.
Per capire bene l’ideale dei repubblichini bisogna pensare che essi fecero quelle scelte «credendo di servire ugualmente l’onore della propria patria». Questo ribilanciamento dell’ideale repubblichino viene dalle alte parole del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi il quale, il 14 ottobre 2001, durante una cerimonia sulla resistenza, in un paese vicino a Bologna, pronunciò solennemente le seguenti parole che il protocollo del Quirinale mi fece allora pervenire via fax: «Abbiamo sempre presente, nel nostro operare quotidiano, l’importanza del valore dell’unità d’Italia. Questa unità che sentiamo essenziale per noi, quell’unità che oggi, a mezzo secolo di distanza, dobbiamo pur dirlo, era il sentimento che animò molti dei giovani che allora fecero scelte diverse e che le fecero credendo di servire ugualmente l’onore della propria Patria».
In quell’occasione pubblicai su Le monde un articolo dove dicevo che Ciampi aveva «pronunciato parole improponibili per una Repubblica nata dall’antifascismo». Il Corriere della Sera, dove allora scrivevo si rifiutò di tradurlo. La Stampa che ha un accordo con Le Monde, anche. Mi rivolsi all’Unità. Me lo pubblicò Furio Colombo («L’italia alla deriva», il 21 ottobre 2001). Il giorno seguente l’onorevole Piero Fassino interveniva con un articolo sdegnato nei miei confronti. Come avevo osato contraddire l’alto concetto di Carlo Azeglio Ciampi? Forse che il nostro paese non aveva bisogno di unità e non di ulteriori lacerazioni che tanto male ci avevano fatto nel passato? E poi, ribadiva Fassino, anche quello dei repubblichini era un ideale, seppur sbagliato. Ecco: si trattava di ragazzi che avevano «sbagliato». In buona fede.
Ah, la buona fede! Ma il mondo è pieno di buona fede, lo è sempre stato. Quando l’inquisizione mandava gli «eretici» sul rogo, lo faceva in buona fede e per la buona fede, quella vera. E quanto ai «ragazzi» delle Ss che commettevano eccidi nel nostro paese, quanto agli addetti ai forni crematori, molti dei quali volontari, non lo facevano forse in buona fede? Il loro, in fondo, non era un ideale? È vero, quell’ideale prevedeva un ripulisti dalla faccia della terra di razze considerate inferiori, soprattutto gli ebrei e voleva la dominazione assoluta della razza ariana (che fra l’altro come sappiamo è un fenotipo inesistente). Ma non si può negare che fosse un ideale.
Io credo che in un’Europa unita come la nostra il governo italiano dovrebbe unire i suoi sforzi a quelli di analoghi equiparatori di altri paesi affinché i loro «militari belligeranti» godano dello stesso statuto di coloro che combatterono per l’altro ideale. Il ministro degli estri Fini dovrebbe avere la forza di chiedere al Parlamento europeo al suo omologo tedesco e francese il riconoscimento di aver lottato per un ideale ai militi delle Ss, ai membri della Gestapo e ai miliziani di Vichy. Fare questa riabilitazione da soli sembra un autismo insensato in un’Europa dei diritti. Sempre per seguire la logica, le stesse persone dovrebbero riconoscere che anche i piloti di Al Quaeda che si sono infilati nelle torri gemelle erano «ragazzi» che avevano un loro ideale, anche se sbagliato. Così come sempre per un ideale, seppure sbagliato alcuni «ragazzi» palestinesi entrano negli autobus con una cintura di tritolo sotto la giacca. La logica impone che se si parte dalla A si deve arrivare alla lettera Z. Perciò, se si riconosce un ideale, che si abbia il coraggio di andare fino in fondo. In questo modo, probabilmente gli equiparatori riusciranno a stabilire quell’armonia e quella pace la cui assenza lacera oggi sciaguratamente il mondo.
Dunque, del tutto contraddittorie, paiono oggi le lamentazioni di quella sinistra che dopo aver riconosciuto l’uguaglianza degli ideali si vorrebbe fermare lì, rifiutandosi incongruamente di accettare le conseguenze pratiche di tale principio. Se però tali equiparatori avessero dei dubbi nel venire al sodo, allora si leggano Primo Levi, Walter Benjamin, Anna Harent, Habermas e altri storici e filosofi della storia. Cioè, si facciano una cultura, anche minima, anche elementare, siano essi segretari o presidenti, onorevoli o onorevolissimi, sottosegretari o portavoce. Perché si ha l’impressione che la loro formazione sia avvenuta piuttosto sui testi di Oriana Fallaci e Giampaolo Pansa. È tardi, si sa, e l’università versa nelle condizioni che sappiamo. Ma esistono ancora ottime scuole serali, scuole per anziani che vogliono imparare cosa significa un’affermazione che tocca la storia di una nazione e le sue ferite più profonde.
(Fonte: Antonio Tabucchi, il Manifesto, 14 gennaio 2006)