25 Gennaio 2006

…e in Egitto

Diritti

Una finestra sul Nilo, un ponte, una manifestazione di studenti mitragliata dalle truppe inglesi. Tre elementi che hanno segnato la vita di Radwa Ashur, scrittrice e attivista politica, ancora prima che lei nascesse, il 26 maggio del 1946. Quella casa sul ponte del Nilo era dei suoi genitori, padre avvocato e madre docente universitaria come lei è ora. E ora Radwa – a Torino per la manifestazione culturale Scritture svelate, organizzata dal premio Grinzane Cavour – racconta: «Fin da bambina divoravo libri e giornali, e così scoprii che il 21 febbraio del ’46, sul ponte che vedevo dalla finestra, erano morte decine di studenti che manifestavano per l’indipendenza dall’Inghilterrra, qualcuno si era salvato buttandosi nel fiume. Se mi affacciavo, mi sembrava di vederli». Il 1946 è un anno cruciale per la società egiziana, investita da un malcontento generale verso l’indipendenza di facciata del governo, prono ai britannici e ai latifondisti locali, che detengono il potere assoluto sui ceti rurali. Prende da allora avvio l’esperimento del nazionalismo arabo. Dopo la sconfitta del ’48 che consente a Israele l’occupazione militare della Palestina, l’Egitto accetta la sfida della «modernizzazione» e si mette alla prova dei nuovi assetti determinatisi alla fine della seconda guerra mondiale.
Il primo atto di Gamal Nasser – giunto al potere nel 1952, alla testa di un gruppo di militari, affiliati alla società dei «Liberi ufficiali» – è quello di nazionalizzare il Canale di Suez. Nel 1956, dopo aver respinto, grazie alla mediazione sovietica, l’attacco di Israele che avrebbe consentito a Francia e Inghilterra di riprendere il controllo del Canale, Nasser (di precedenti simpatie fasciste), requisisce le grandi proprietà della borghesia filoccidentale. «A metà degli anni sessanta, il Nilo è un grande cantiere», ricorda Radwa Ashur. Si costruisce la diga di Assuan, con l’aiuto dell’Urss. Si cementa anche la «solidarietà ai movimenti di liberazione nazionale dell’Africa». Ma poi Nasser esce sconfitto dalla guerra dei Sei giorni e Israele lo respinge al di là del canale di Suez. E’ il 1967. Radwa, che ha 21 anni e studia letteratura all’università, racconta: «Allora Nasser voleva dimettersi, ma la folla scese in strada e lo convinse a restare al suo posto. C’ero anch’io».
Tre anni dopo, però, a Nasser subentra Anwar Sadat e la musica cambia. Più che i sussidi ai ceti non abbienti, il nuovo presidente privilegia le aperture ai capitali sauditi e nordamericani . Abbandona la riforma agraria e nel `73, dopo la guerra del Kippur, apre a Israele e Usa. Riprendono le manifestazioni di piazza. Ricorda ancora Radwa: «Il grande cantante cieco Sherif Imam stava tenendo un concerto all’università che era occupata da una settimana, e tutti cantavano. All’improvviso, il Rettore ha tolto la corrente e la polizia è venuta a sgombrarci. 15.000 arresti. Mentre venivano portati via, gli studenti continuavano a cantare. Era il 24 novembre 1972».
L’anno dopo, Radwa si trasferisce negli Usa per un dottorato di ricerca sulle letterature africane-americane. Edward Said, amico di famiglia, supervisiona la sua tesi. Su quel periodo di studio, Radwa scrive il suo primo libro, un’autobiografia. Poi troverà nel romanzo storico la sua cifra migliore.
«Ho cominciato a scrivere da bambina – racconta – ma dopo aver letto Cechov ho creduto che il compito fosse troppo arduo. Poi, ho messo in pagina la mia esperienza di studente negli Usa, inserendomi in una tradizione letteraria egiziana che tratta i temi del viaggio di formazione in Europa o in America. Ho descritto la mia esperienza politica in un gruppo di studenti marxisti internazionalisti: africani, arabi, ebrei, latinoamericani, un’organizzazione nata dopo la guerra del ’73. Ero molto attiva all’università. Eravamo solo 7-8 studenti arabi su migliaia, molto interessante».
E siamo al 1977. Sadat rompe con la Lega araba, l’anno dopo riconosce Israele e gli accordi di Camp David, e così l’Urss sbatte la porta. Per Radwa Ashur comincia un periodo nero.
«La mia vicenda personale – spiega – testimonia lo scacco del mondo arabo riguardo alla soluzione del problema palestinese. Nel 1977, mio marito, lo scrittore palestinese Murid al-Barghuti, che avevo sposato contro il parere dei miei genitori, è stato deportato, e per 7 anni non ha potuto tornare in Egitto. Andavo io a trovarlo durante le vacanze. E’ rimasto due anni a Beirut e in seguito a Budapest, dove ha ricoperto la carica di rappresentante della federazione della gioventù palestinese. E poi, per 10 anni, ogni volta che tornava in Egitto, doveva chiedere l’autorizzazione». Nel frattempo, a Sadat – ucciso in un’attentato dei Fratelli mussulmani nell’81 – succede Mubarak. Nel 1994, la nomina dell’egiziano Boutros Boutros-Gali a segretario generale dell’Onu, riporta un paese blindato e incalzato dal fondamentalismo islamico, al centro della diplomazia internazionale. Nel ’94, gli accordi su Cisgiordania e Gaza vengono siglati al Cairo. «Nel 1995 – continua la scrittrice – permettono a mio marito di risiedere in Egitto. Ma da allora, sotto la dicitura ‘processo di pace’ sta perpetuandosi la peggiore delle violenze. Israele, lunga mano degli Stati uniti, ha bloccato tutte le strade. La resistenza del popolo palestinese è identificata col terrorismo, mentre Sharon appare `un uomo di pace’, secondo il discorso della Casa bianca. La complicità dei media è insopportabile. Chi si ricorda più del massacro di Sabra e Chatila?
Come ha detto Harold Pinter nel suo discorso da Nobel: siamo circondati da una vasta ragnatela di menzogne». Da allora, Mubarak ha appoggiato la guerra del Golfo e le politiche di aggressione degli Stati uniti. Dal `96, il suo partito (Pnd) vince tutte le elezioni. Radwa racconta ancora: «Nel marzo del 2003, durante le manifestazioni di piazza contro il bombardamento in Iraq, mio figlio che faceva parte dei dimostranti, è stato arrestato e deportato. Adesso è tornato, ha preso il dottorato in scienze politiche ma non hanno voluto dargli il passaporto egiziano né il permesso di lavorare, così ha dovuto andare a lavorare fuori dal suo paese». Fino a 3 anni fa, i bambini nati da madre egiziana e padre straniero non avevano diritto al passaporto. Adesso, «non è più così per nessuno, salvo per i palestinesi; a loro non viene concesso il passaporto».
Oggi per Radwa, donna laica e di sinistra, la vita non è facile. Ma lei non si dà per vinta. «L’ultima manifestazione a cui ho partecipato – dice – risale a qualche settimana fa. Faccio parte del Movimento 9 marzo, che si batte per la democratizzazione delle università del mio paese, sempre più sorvegliate e militarizzate. Dobbiamo chiedere il permesso per tutto, chi non china la testa viene terrorizzato o marginalizzato». Una situazione difficile, quella delle università, sintomo di un’asfissia generale che paralizza le forze vitali del paese. «Le elezioni del novembre scorso sono state una farsa. Nei luoghi dove l’opposizione è forte, centinaia di poliziotti impedivano l’accesso ai votanti. Molti accedevano al seggio per vie secondarie, ho visto gente passare dalla finestra del piano di sopra per votare. I giudici che ufficialmente dovevano controllare la regolarità delle elezioni hanno più volte protestato, ma senza esito». E i Fratelli Musulmani – un movimento di islamici tradizionalisti, che dal 1928 interviene pesantemente nella vita politica dell’Egitto – ha ottenuto 80 seggi in parlamento. Cosa ne pensa Radwa Ashur? «Io non sono credente – dice la scrittrice – ma se si accetta la democrazia, allora bisogna accettarne le conseguenze, anche quando vincono gli altri. Se, malgrado la truffa elettorale, i Fratelli musulmani hanno ottenuto quel risultato, bisogna prenderne atto, metterli alla prova. Chi li ha votati, spinto dalla crisi economica e sociale e dal vuoto di speranze del paese, vorrà dei fatti. E loro falliranno. Speriamo almeno che questo serva da monito e da stimolo alla sinistra perché colmi il suo vuoto di proposta e di radicamento».
E all’università? Come si comportano i giovani islamisti radicali? E le ragazze che portano il velo? «Non ho mai avuto problemi con gli islamisti radicali – dice Radwa – né con le ragazze che portano il velo. In certe università sono più della metà a portarlo, ma per me non è un indicatore sufficiente per giudicare l’orientamento e l’identità. In genere, non ne discuto perché è una questione personale, un modo di vestire o un credo intimo. Quando qualcuno vuole pregare in classe, chiedo che vada fuori e che venga rispettata la mia differenza. Discuto, invece, di politica, di cultura. Cerco di proporre un metodo d’interpretazione di questo triste presente». Quale? Radwa sorride. «Riparlo di Gramsci, del marxismo senza cui non sarebbe stata possibile tanta critica letteraria interessante. Torno alla storia del presente e dei secoli passati, su cui ho scritto diversi romanzi. Ricordo la storia del nostro femminismo». Una storia che s’intreccia a quella per la liberazione nazionale.
«Ho avuto la fortuna di poter lavorare e studiare all’università senza troppe discriminazioni grazie alla lotta delle femministe egiziane. La prima volta che le donne sono uscite in strada per manifestare era il 1919, durante la rivoluzione popolare contro l’occupazione britannica. E’ stato quello l’inizio dell’attività politica per le donne egiziane». Nel 1925 venne promulgata una legge che istituiva l’istruzione elementare obbligatoria per entrambi i sessi. Ma le donne arabe – in particolar modo le egiziane, le siriane e le libanesi – partecipavano alla vita culturale già dalla fine del 19° secolo e dall’inizio del 20° attraverso romanzi e articoli di giornali. Hanno contribuito a far crescere la coscienza femminista anche attraverso decine di biografie di grandi donne arabe ed europee, a partire dal 1879. Dal 1892 al 1939, solo in Egitto sono state pubblicate 571 biografie di donne. «La fondazione di salotti, gruppi, organizzazioni e giornali femminili e la partecipazione ai dibattiti riguardanti la liberazione delle donne nel corso dei due ultimi decenni del diciannovesimo secolo ha fatto da incubatrice alle idee di libertà femminile». Attività che si svolgevano al Cairo, ad Alessandria, a Beirut, a Damasco, Aleppo e in molte altre città arabe.
E oggi, che cosa resta? «Ci sono tante reti di donne, laiche e di sinistra» – dice Radwa. «Ci sono molte associazioni e manifestazioni in diverse città. Il 5 settembre scorso, al Cairo, c’è stato un incendio in un teatro. Le autorità portano la responsabilità della morte di circa 40 persone. E subito si è creata un’associazione denominata `5 settembre’. E poi ci sono i professori, tutti laici, e i movimenti no global, che ogni tanto organizzano convegni. Resta molto di buono. Possiamo ancora sperare nella solidarietà, nella possibilità di vivere insieme in una terra dove ci sia l’uguaglianza e la libertà, dove non ci siano ingiustizie sociali o razziali. Vale ancora la pena spendersi per questo. Vedo ancora tutto questo dalla finestra sul Nilo».
(Fonte: il Manifesto, 21 gennaio 2006)