Le identita’ delle centinaia di persone accusate di terrorismo e detenute nella base americana di Guantanamo, a Cuba, dovranno essere rese note. Lo ha ordinato all’amministrazione Bush il giudice federale statunitense Jed Rakoff.
(Fonte: Corriere.it, 24 gennaio 2006)
C’è un profondo significato simbolico in questa decisione. Lo stesso che in contesti certamente differenti spinge a celebrare l’anniversario dell’attacco alle Twin Towers con la pubblica lettura dei nomi delle vittime. O che guida le mani dei giovani artisti che sulle bianche pareti del Museo ebraico di Praga vergano, in un’opera paziente e interminabile, gli infiniti nomi dei prigionieri sterminati nei campi di concentramento. Fare i nomi significa divincolarsi dall’anonimato, come i Prigioni di Michelangelo che lottano per uscire dall’inespressivo blocco di marmo che li imprigiona. Significa estirpare alla radice la possibilità stessa dei giudizi universali, dell’astrazione e della retorica. Significa riaffermare l’identità simbolica, storica e giuridica della persona vivente, l’irriducibilità della carne viva alla categorizzazione ideologica del mondo. Non è più dei “terroristi” o dell’”asse del male” che l’amministrazione Bush deve ora farsi carico, ma di individui con un volto e un retroterra storico e culturale, con dei legami familiari, con delle responsabilità e delle colpe concrete che devono essere esposte e correttamente dimostrate in regolari processi, si spera non più corazzati e refrattari al sistema informativo. L’indistinzione dell’altro, la miopia politica che trasforma la sua corporeità e quotidianità in una massa sfocata e ostile, la sua terra in un vasto deserto senza storia punteggiato da toponimi impronunciabili è l’alibi psicologico che sostiene ogni guerra, un volontario atto di autoaccecamento. C’è un bellissimo racconto di Matheson intitolato “Il pulsante”. Narra di una coppia che riceve a casa una misteriosa scatola dotata di un pulsante rosso e un biglietto che chiede loro di attendere l’arrivo di un incaricato. L’uomo misterioso giunge e propone ai due confusi interlocutori questo accordo: se sceglieranno di non premere il pulsante, il giorno successivo egli tornerà a ritirare la scatola, ma se sceglieranno di premerlo riceveranno in omaggio un assegno di centomila dollari. Alla richiesta di quali siano le conseguenze di quest’ultima opzione, l’uomo risponde: la morte di una persona a voi sconosciuta. Dopo una notte insonne trascorsa a ponderare interrogativi morali, la coppia decide che l’uccisione indiretta di uno sconosciuto non è dissimile da una morte casuale e preme il pulsante. L’uomo ritorna, consegna loro l’assegno e porta via la scatola. La consegnerà a un’altra coppia alle stesse condizioni. I due coniugi gli chiedono di chi si tratti e l’uomo risponde: “Qualcuno che non vi conosce.”
Siamo sempre gli sconosciuti di qualcuno. Per secoli l’Occidente ha tracciato le mappe dei propri altri sconosciuti, aggiungendo: “hic sunt leones”. Il trauma originario e la fondamentale lezione delle stragi del World Trade Center è che per la prima volta gli occidentali, abituati ad essere gli unici soggetti del mondo, erano violentemente oggettivati, fatti massa critica, anonimi sconosciuti da altri folli predicatori di morte. Fare i nomi è il primo passo per riscattare l’etica della misura, della responsabilità e della ragione, prima che ci siano offerti nuovi gelidi specchi in cui riconoscerci.
Gabriella Stanchina