17 Febbraio 2006

Il prgramma della CdL: stesso copione, stesso errore

Attualità

Il programma con il quale cinque anni fa Berlusconi si presentò agli elettori poteva non piacere, ma era frutto di un ragionamento coerente. Nel triennio che precedette quel voto, 1998-2000, l’economia europea era cresciuta un po’ più del 3% l’anno. Nel 2000 il tasso di crescita era stato addirittura del 3,5%, non lontano dal 3,7 degli Stati Uniti; persino l’Italia era cresciuta del 3%, non accadeva da quindici anni. I conti pubblici erano in buona salute: il 2000 si era chiuso con un avanzo di bilancio, al netto degli interessi, vicino al 6% del prodotto interno lordo (pil) e il rapporto tra debito e pil era sceso dal 117 al 111 per cento.
La strategia di Berlusconi — e del suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti — si reggeva su una speranza: che la crescita continuasse, consentendo di tagliare le tasse, aumentare la spesa sociale e finanziare le opere pubbliche senza intaccare gli equilibri di bilancio.
Così fu in effetti sino all’11 settembre 2001. Ma proprio in quei mesi Berlusconi e Tremonti fecero il primo errore. Anziché ridurre subito le tasse, come si erano impegnati a fare, Berlusconi si occupò solo di come fermare i suoi processi; Tremonti perse l’estate in una futile polemica con il suo predecessore. Negli stessi mesi George W. Bush, insediatosi alla Casa Bianca solo poco prima di Berlusconi, condusse in porto la più grande riduzione delle tasse della storia degli Stati Uniti.
Dopo l’11 settembre tutto apparve più difficile, a cominciare dai conti pubblici. In quel momento Berlusconi commise il secondo errore. Aveva di fronte a sé due strade: sfidare Bruxelles e procedere comunque con la riduzione delle tasse, contando, come Ronald Reagan, che il taglio fiscale avrebbe stimolato la crescita e quindi si sarebbe ripagato da solo. Oppure cambiare strategia e puntare su privatizzazioni e liberalizzazioni, misure che non costano nulla ma che avrebbero anch’esse — a mio parere ancor più che il taglio delle tasse — stimolato la crescita.
Invece non scelse né una strada né l’altra. Non solo, ma lasciò che la spesa corrente delle amministrazioni pubbliche corresse: in tre anni, nonostante i decreti taglia-spese e i poteri speciali attribuiti al Ragioniere generale dello Stato, i consumi pubblici crebbero di 2 punti rispetto al pil, gli stipendi dei dipendenti di mezzo punto. E il premier dedicò tutte le sue energie alla battaglia sull’articolo 18 — che non era un punto del suo programma — solo perché stava a cuore all’allora presidente di Confindustria, e alla fine perse anche quella.
Il programma che oggi Berlusconi propone agli elettori riproduce sostanzialmente i punti di cinque anni fa; meno tasse e più spesa, aumenti delle pensioni minime, buoni- casa, più risorse per scuole e ospedali, aiuti alle imprese, infrastrutture. Oggi però, contrariamente a cinque anni fa, quando nessuno poteva prevedere l’11 settembre, i rischi sono tanti e ben noti: il prezzo del petrolio, gli aumenti dei tassi di interesse negli Stati Uniti e ora anche in Europa, l’eventualità di un’epidemia aviaria, la possibilità che i prezzi degli immobili, troppo elevati in molti Paesi, cadano repentinamente, trascinando con sé i consumi. E quel 6% di avanzo nei conti pubblici nel frattempo ce lo siamo mangiati.
Berlusconi ha già sprecato una legislatura perché non è stato capace di cambiare strategia di fronte al mutare delle condizioni esterne. Che cosa farà questa volta se, come è possibile, l’economia europea non trascinerà l’Italia? Ripeterà che avrebbe voluto fare di più, ma che ancora una volta è stato sfortunato?
(Fonte: Francesco Giavazzi, il Corriere della Sera, 17 febbraio 2006)